CREDO CHE SUL RICORRENTE (e un po’ stucchevole...) tema del ruolo “strategico” dell’HR alcune riflessioni complessive vadano fatte contestualizzandole al mondo globalizzato e volatile in cui ci troviamo a vivere oggi. Non c’è dubbio, infatti, che le sfide attuali siano veramente diverse dal passato e, per una volta, possiamo dire con fondamento che i paradigmi sono cambiati in modo drastico. Non starò a ricordare quali siano questi nuovi paradigmi provocati dalla globalizzazione e dalla rivoluzione digitale perché universalmente noti. Credo invece interessante rilevare come i nuovi scenari, e l’ingresso al lavoro dei giovani “millenial”, stiano avendo un impatto formidabile sul senso e sulle motivazioni al lavoro, sul contratto psicologico tra impresa e collaboratori e, di conseguenza, sulle strutture e sui processi organizzativi.
La tradizionale struttura gerarchica e a compartimenti stagni (oggi si dice “silos”...) non è più in grado né di reggere la concorrenza globale né di integrare al meglio i giovani talenti che sono molto diversi dai loro padri. Se questo è lo scenario, su cui pare esserci un elevato consenso, si può so- stenere che la sfida fondamentale per le imprese sia oggi quella posta dal capitale umano e dalla adeguatezza al mondo attuale: sono infatti le persone la vera fonte del vantaggio competitivo, tanto per le imprese quanto per le nazioni.
La centralità del capitale umano pone, inevitabilmente, una grossa sfida/opportunità per chi di persone si occupa per mestiere, il nostro professionista HR. Tralasciando le elucubrazioni d’antan della professione (chi siamo, dove andiamo, perché non arriviamo mai.... al Comitato Strategico), vorrei guardare avanti, facendo alcune riflessioni su cosa l’HR dovrebbe (e potrebbe) fare e su quali competenze siano necessarie per farlo bene.
La prima azione da realizzare è, a mio avviso, collegare fortemente il proprio bagaglio professionale al business dell’azienda dove si opera: non si gestiscono le persone solo secondo “buone pratiche” generali. Queste certamente servono, se applicate allo specifico contesto competitivo, spesso glo- bale, del proprio settore. Tale collegamento rende più credibile, agli occhi del vertice e dei colleghi, il reale valore aggiunto che la funzione HR può dare evitando così l’isolamento (non tanto splen- dido) in cui talora l’HR viene a trovarsi.
Per esempio, il grosso problema della motivazione e dell’engagement (oggetto di numerose indagini internazionali) non va affrontato con soluzioni generali buone per tutti, ma con interventi ritagliati sui casi specifici (divisione, stabilimento, gruppo di lavoro) che risolvano problemi reali e ben defi- niti. Solo così l’HR può contribuire con un proprio valore aggiunto al successo del business. Un’altra azione significativa può essere quella di tradurre in numeri e dati leggibili da tutti i risultati ottenuti nella gestione delle persone: solo così si riesce a rendere equivalente il management delle risorse umane a quello del capitale finanziario e tecnico.
Una terza area di intervento ha a che fare con quello che Dave Ulrich chiama “outside in”: l’HR deve cioè guardare contemporaneamente dentro e fuori l’azienda, aiutare l’impresa e i suoi manager a mettersi in sintonia con quanto accade fuori nella società, adeguando ai tempi le politiche e i processi operativi.
Sono solo alcune proposte ma penso che, se realizzate, sarebbero sufficienti a fare assumere al- l’HR quella dimensione strategica tanto ricercata. Naturalmente, tutto questo è subordinato a due condizioni:
• che si abbiano le competenze, di business, di finanza etc., tipiche di un manager a tutto tondo;
• che si abbia la voglia (e la forza) di assumersi dei rischi, uscendo dal proprio ristretto ambito specialistico.
La prima condizione è più semplice da realizzare: basta aggiornarsi. Per la seconda occorrono altre doti che non si imparano nei corsi: il coraggio e la voglia di mettersi in gioco. Ma, come talvolta si dice, ”se non ora, quando?”