Approvata nel luglio scorso, la legge 107/2015 ha cominciato a essere implementata con l’inizio del nuovo anno scolastico. Su questo provvedimento il Governo e lo stesso premier Renzi hanno investito molto in termini di immagine e credibilità politica. A dispetto di tale impegno (o forse proprio a causa di esso), il percorso della legge è stato segnato da aspre opposizioni, culminate in uno sciopero del mondo della scuola come non se ne vedevano da anni. A distanza di qualche mese è possibile se non fare un bilancio, ancora prematuro, quanto meno mettere alcuni punti fermi, utili a formulare un giudizio più meditato.
La prima cosa da ricordare è che in una legge costituita da tante misure ve ne sono senza dubbio di positive. Una per tutte: l’impegno a favore dell’alternanza scuola-lavoro, che prevede che nell’ultimo triennio gli studenti di istituti tecnici e licei trascorrano fra le 200 e le 400 ore sui luoghi di lavoro.
Con la Buona Scuola l’Italia ritorna, inoltre, a investire in istruzione: 3 miliardi aggiuntivi all’anno a regime. Negli anni precedenti – come ricorda il rapporto Ocse del 2015 – la percentuale di risorse pubbliche per scuola e università era diminuita. Ora, almeno per la scuola risalirà (per l’università, invece, purtroppo no). Bisogna, però, chiedersi se queste risorse fresche vanno nella direzione giusta. Per il momento, la risposta è negativa.
La Buona Scuola sarà, infatti, ricordata soprattutto per la decisione di assumere oltre 100mila insegnanti precari, cancellando i tagli voluti dal ministro Gelmini. Ora, ci si può chiedere se la scuola italiana davvero avesse bisogno di tanti nuovi docenti. Ma se anche così fosse, certo costoro avrebbero dovuto essere assunti sulla base delle loro competenze didattiche e disciplinari e non solo del numero di anni trascorsi in attesa di una cattedra. L’anzianità rimane invece l’unico criterio guida delle carriere e delle retribuzioni dei docenti. Il Governo all’inizio aveva pensato di “scambiare” le assunzioni con l’abolizione degli scatti di anzianità e la sostituzione con aumenti retributivi basati sul merito. Caduta immediatamente tale ambizione per le resistenze del mondo della scuola - ciò che di “merito” è rimasto nella legge è poca roba e mal congegnato - sono però rimaste le assunzioni.
Queste ultime, per di più, sono state decise in modo scriteriato. Non ragionando su come migliorare l’insegnamento e innovare una didattica arretrata, e di conseguenza come reclutare gli insegnanti adatti, ma a partire dalla presunta necessità di assumere - subito e tutta intera - una specifica categoria di insegnanti precari, quelli delle graduatorie provinciali. I quali, per oltre la metà, non possiedono la formazione e i profili professionali richiesti dalle scuole. Per non dire che la distribuzione sul territorio di chi è stato assunto non corrisponde affatto alla domanda espressa dalle scuole: gli insegnanti sono concentrati al Sud, mentre, per ragioni demografiche, sono le scuole del Nord ad avere cattedre vacanti.
Le conseguenze di questa scelta “alla rovescia” cominciamo a vederle in questi mesi. Istituti che avevano bisogno di insegnanti di matematica (nelle graduatorie praticamente assenti) si sono, invece, ritrovati con un docente di diritto o di musica (numerosissimi nelle graduatorie). E non è stato possibile mantenere neppure quella che sembrava la promessa più semplice: eliminare con le assunzioni la piaga delle supplenze annuali, che impediscono agli studenti di godere della giusta continuità didattica.
La speranza che un nuovo annunciato concorso – altre 80mila assunzioni – introduca correttivi, portando in cattedra insegnanti più qualificati, non può impedirci di pensare che la Buona Scuola per il momento sia un’occasione perduta.
Andrea Gavosto è Direttore della Fondazione G. Agnelli.