La domanda del titolo non è oziosa. Di Corporate Social Responsibility (CSR) si parla ormai sempre di più e sono numerose le aziende che hanno una politica al riguardo. Ma quanto spesso questa politica di CSR è reale e quanto di frequente è una operazione cosmetica per lustrare la propria l’immagine, contrastare gruppi contrari d’interesse (le ONG, i verdi, i comitati civici di vario genere), far crescere la reputazione e magari fare anche salire le vendite? La risposta è: spesso, anche se non sempre.Passiamo sull’altro lato. La società nelle sue varie espressioni, e cioè l’opinione pubblica, le ONG, i verdi, i comitati civici eccetera, spesso chiedono alle aziende di farsi carico di responsabilità che vanno ben oltre le esternalità dirette. Pongono obiettivi di compatibilità o sostenibilità talvolta legittimi, ma talvolta del tutto irrealistici. Quanto spesso tengono conto della capacità dell’impresa di fare fronte a queste richieste senza compromettere i necessari obiettivi di sostenibilità economica? La risposta è: spesso, anche se non sempre.La contraddizione è grave ma, per fortuna, arriva in soccorso il pensiero di Michael Porter. Il quale suggerisce, nell’articolo che pubblichiamo, che la questione è mal posta. Se da una parte mettiamo Adam Smith o i Chicago Boys, che considerano come unico dovere dell’impresa fare quanti più soldi possibile, e dall’altra i filosofi sociali che si aspettano che il produttore di whisky o grappa finanzi la Lega Antialcolica, la contraddizione non si risolverà mai.La soluzione di Porter è di smetterla di porre in conflitto la responsabilità dell’impresa e gli obiettivi della società. E, addirittura, di smetterla di parlare di «responsabilità sociale dell’impresa» per iniziare a parlare di «integrazione sociale dell’impresa». Come sostengono Porter e Kramer, ma anche Christensen e altri, occorre divenire coscienti che impresa e società devono imparare a perseguire una comunanza di obiettivi. Le strategie dell’impresa devono incorporare in misura crescente le esigenze di tipo sociale e ambientale e gli attori sociali devono a loro volta accogliere le strategie economiche dell’impresa come una ricerca legittima di un profitto che va a beneficio sia dei dipendenti e degli azionisti, sia degli stakeholder più in generale.In questo numero di HBR Italia la questione della composizione di elementi contrastanti non si limita alla CSR. L’articolo di Dodd e Favaro affronta, infatti, il ben noto problema degli obiettivi in conflitto che ogni azienda ha spesso di fronte, come la scelta tra crescita e profitto, tra obiettivi di breve o di lungo termine e tra l’intera azienda e le sue parti. Come risolvere le contraddizioni ed evitare che la tensione fra i vari obiettivi danneggi l’azienda? Gli autori lo spiegano con chiarezza.Di grande attualità due articoli che toccano la gestione delle risorse umane. Nel primo Hewlett e Luce si occupano di quelli che in passato venivano definiti i workaholic, i malati di lavoro, che rischiano di rovinarsi la salute e, non di rado, la vita familiare. I lavoratori estremi, quelli che lavorano 70, 80 o più ore alla settimana, rischiano molto personalmente, anche se spesso sono le aziende a incoraggiare questi comportamenti. La tesi degli autori è che, se anche si tratta spesso di scelte personali, le donne sono svantaggiate rispetto agli uomini, e la società nel suo insieme potrebbe subire dei danni di cui oggi ancora non ci si rende conto.Il secondo articolo, di Groysberg e Abrahams, discute l’opportunità di realizzare i cosiddetti Lift Out, vale a dire l’assunzione in blocco di un gruppo di lavoro sottratto a un’altra azienda. Gli autori ne descrivono vantaggi e svantaggi. Infine, nell’ambito delle strategie competitive, da segnalare l’articolo di Kumar sulle strade da percorrere per fare fronte ai concorrenti a basso costo; e l’intervista a Ennio Doris, che mette in evidenza la strategia di successo di Banca Mediolanum basata sulla grande efficacia di una rete distributiva di prodotti finanziari molto dinamica e motivata.Buona lettura!