Può sembrare strano che manager intelligenti e di successo facciano errori macroscopici; alcuni esempi recenti e nostrani sono le vicende di aziende pubbliche come Alitalia o (ormai) ILVA, e private come Sorgenia, Benetton o Ferrari. In passato il caso più eclatante è stata la cecità di McNamara e del suo trust di cervelli di fronte all’impossibilità di vincere la guerra in VietNam; tale caso è stato ampiamente analizzato nel famoso libro The Best and the Brightest di D. Halberstam e J.McCain.
Le ragioni delle “cecità” sono sempre le stesse: eccesso di confidenza nelle proprie capacità, insofferenza rispetto alle critiche altrui, autoreferenzialità, verticismo decisionale, accettazione supina di dogmi derivati dal passato o dei vincoli posti dagli azionisti. In generale un manager o un imprenditore in gamba pensa di ragionare bene e non s’interroga sul perché egli ragioni in un certo modo e se quel modo di ragionare sia ancora adatto nel contesto competitivo attuale. Per esempio già vent’anni fa era evidente che il modello distributivo di Zara, basato su tempi brevi nel ciclo ordine e consegna, era molto più efficiente di quello di Benetton basato su cadenze annuali, ma la famiglia Benetton si sentiva invincibile e si crogiolava nella comodità di farsi pagare le forniture in anticipo dai franchisee e scaricare su di loro il peso dei saldi di fine stagione. Il tempo ha dato ragione a Zara.
Quanto più un imprenditore o un manager è bravo e tanto più c’è il rischio di errori macroscopici perché la bravura sta anche nell’esser capaci di argomentare in modo convincente persino un’idea sbagliata; è un rischio che un manager palesemente incompetente non corre.
Nel mondo della politica economica le possibilità di fare errori macroscopici sono ancora maggiori perché quasi nessuno affronta seriamente i casi in cui un’amara medicina presa oggi risolve un problema di un lontano domani. In Italia sembra che sia normale ipotizzare di poter continuare ad avere deficit di bilancio, anche solo del 3%, con il conseguente ulteriore aumento di un debito pubblico già oggi insostenibile; ma affrontare una forte riduzione del debito pubblico vuol dire avere oggi ancora più problemi e critiche mentre chi godrà dei risultati positivi di tali azioni (forse, ma fra qualche anno) sarà qualche altro politico o chi non vota oggi. E’ quindi più facile argomentare e convincersi che il debito pubblico sia sostenibile.
Posso offrire un piccolo contributo per strutturare il cervello a pensare in termini più corretti e adatti a interpretare la realtà? Bisogna incominciare a chiamare le cose con le parole corrette e a guardare in modo analitico e documentato i rapporti causa-effetto. Se si continua ad utilizzare la parola “crisi” invece che “declino”, implicitamente si fa riferimento a qualcosa che dura qualche anno e poi si risolleva (la crisi del ’29 è rientrata in circa 4 anni); l’Italia è invece in declino strutturale perché sono venute meno le ragioni di competitività internazionale e di ricorso all’aumento del debito pubblico che hanno spinto la nostra crescita fino a 20 anni fa. Se si continua a dire “bisogna tornare a crescere” significa voler dimenticare che il PIL pro-capite non cresce da 15 anni; sarebbe magari più giusto dire “inventarsi dei nuovi meccanismi di crescita”, cosa notoriamente più difficile che attendere pazientemente un rimbalzo naturale. I declini strutturali sono impossibili da correggere senza rivoluzioni o guerre.
Un’altra frequente affermazione priva di fondamento è quella che aumentando la spesa pubblica si genera un aumento del PIL virtuoso che a sua volta permetterà di ridurre il rapporto Debito Pubblico/PIL. I fatti sono che fra il 1998 e il 2013 il debito pubblico italiano è cresciuto di oltre 800 miliardi di euro e il PIL pro-capite non è cresciuto. Cosa mai ci sarà di diverso in futuro rispetto all’esperienza storica? E chi/quando incomincerà a ridurre il debito pubblico?
Infine, guardarsi sempre dall’influenza nefasta che ha sul nostro cervello la seduzione dei nostri desideri. Se vogliamo illuderci che ci sia un miracolo e che il declino strutturale possa esser invertito coglieremo ogni piccolo segnale positivo, magari casuale, come un segnale di inversione di un trend; salvo poi constatare che le previsioni di crescita sono sconfessate dalla realtà. Ma i nostri politici, governatori, statisti e statistici non sono capaci a fare le previsioni o le vogliono fare superiori a quanto è legittimo attendersi? Attenzione, però: a forza di confondere i propri desideri con le previsioni finisce che crediamo alle nostre favole ma non è così che si trovano le soluzioni dei problemi reali.
Gianfilippo Cuneo è presidente di Synergo SGR.