La diversità è la nuova pietra filosofale della governance?

di Odile Robotti  |  Mercoledì, 28 Gennaio 2015

Diversità è la parola mantra del mese. Nel suo articolo “Le sfide strategiche dei CdA” (Harvard Business Review 1/2015), Stefano Modena indica l’individuazione delle discontinuità con il passato tra le priorità dei CdA bancari e suggerisce la diversità del board (per genere, età, competenze, nazionalità) come condizione necessaria per vincerla.  L’articolo appena pubblicato da McKinsey "Why Diversity Matters" (http://www.mckinsey.com/insights/organization/why_diversity_matters) va oltre, riportando interessanti correlazioni tra diversità nel team di vertice e profittabilità (a un incremento del 10% nella diversità all’apice, corrisponde un aumento dell’EBIT dello 0,8 nelle società USA e del 3,5 nelle società UK). Forse si scatenerà una caccia ai diversi, questa volta, per fortuna, non per emarginarli ma per averli nei board. Ma basta aumentare la diversità per percepirne il dividendo? Si può contare su una reazione chimica che trasformerà in oro le decisioni di un board diversificato?   

Facciamo un passo indietro. E’ noto che ottenere da un qualsiasi team un contributo maggiore della somma delle sue parti non è banale, a volte si ottiene addirittura un valore inferiore. Dare per scontato che il CdA sia un team ad alte prestazioni per dono di natura non è quindi un’aspettativa realistica da cui partire. Si aggiunga che i gruppi omogenei, pur prendendo decisioni in genere peggiori di quelli diversificati perché soggetti al group-think (la patologia del pensiero di gruppo che porta a appianare le differenze di vedute e a perseguire il consenso facile) e per mancanza di prospettive nuove, tendono a lavorare insieme più velocemente con minore conflittualità. Aumentare la diversità del board senza gestire gli effetti-collaterali della stessa difficilmente porta i risultati sperati e può essere addirittura controproducente nell’immediato (in un contesto in cui pochi board possono ignorare il breve periodo, pur dovendo pensare al medio-lungo).

Se mettere in una provetta consiglieri con provenienze, generi e culture diverse non basta per far nascere un board efficace, ma aumentare la diversità è necessario per innovare e cogliere opportunità derivanti da nuovi mercati e clienti, come procedere?

Il punto di partenza, a mio parere, è aumentare la pratica della boardroom review (un metodo strutturato di analisi delle dinamiche del CdA condotto da un esterno che assiste agli incontri e intervista individualmente i membri). Infatti, iniettando diversità nei CdA crescono le difficoltà di comunicazione e le dinamiche si complicano. Una volta valutata oggettivamente la situazione con la review, si stabilisce come supportare a livello individuale e di gruppo, i consiglieri. 

Quali necessità di sviluppo avranno i singoli board dipende da molti fattori (legati alla cultura aziendale e di settore, al mix, ecc.), ma quasi certamente emergerà che molti consiglieri non sono ancora fluenti nella lingua della diversità e dell’inclusione (ad alcuni manca anche l’alfabetizzazione). Questo linguaggio, che permette di comunicare con persone diverse in modo efficace, è la lingua franca del XXI secolo, ma la maggioranza delle persone la deve ancora imparare. Non infatti è quasi per nessuno la lingua nativa e a scuola, almeno ai nostri tempi, non lo imparavamo.   

 

Odile Robotti è amministratore unico di Learning Edge srl; presidente di MilanoAltruista e di ItaliaAltruista; autrice del libro Il talento delle donne.

 

Odile Robotti
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