Negli ultimi 20 anni la teoria dell’innovazione di rottura ha avuto un’enorme influenza nel mondo del business e si è rivelata uno strumento efficace per prevedere quali nuovi attori avrebbero avuto successo nel proprio settore. Sfortunatamente essa è stata anche ampiamente fraintesa e il termine “disruptive” è stato utilizzato con troppa leggerezza ogni volta che un nuovo arrivato metteva in crisi le aziende più consolidate del mercato.
In questo articolo il teorico dell’innovazione di rottura, Clayton M. Christensen, e collaboratori correggono alcuni travisamenti, descrivono l’evoluzione della riflessione su questo argomento e discutono l’utilità della teoria.
Cominciano con il chiarire le componenti dell’innovazione di rottura classica: una piccola azienda punta a raggiungere un segmento di clientela trascurato con una proposta innovativa ma modesta per poi spostarsi gradualmente verso l’alto del mercato fino a sfidarne i leader. Per esempio, Uber, che è stata comunemente salutata come una realtà di rottura, non corrisponde nei fatti a questo modello. I manager che non comprendono le sfumature della teoria dell’innovazione di rottura o non ne applicano correttamente i principi rischiano di non fare le scelte strategiche giuste. Tra gli errori più diffusi: non vedere l’innovazione di rottura come un processo graduale (il che può portare le aziende dominanti in un mercato a ignorare minacce significative) e accettare ciecamente il mantra “Disrupt or be disrupted”, ovvero “Essere fattori di rottura o subire l’irruzione di altri elementi dirompenti nel proprio mercato” (il che può portare gli attori dominanti a mettere a repentaglio il proprio core business nel tentativo di difendersi da concorrenti rivoluzionari).
Gli autori riconoscono che la teoria dell’innovazione di rottura ha alcuni limiti, ma confidano che con il progredire della ricerca il suo valore esplicativo e predittivo possa soltanto aumentare.
Titolo originale: “What Is Disruptive Innovation?”, HBR, December 2015.