Ovunque le aziende competono per trovare i migliori talenti nel knowledge work e spesso finiscono per trovarsi con migliaia di dipendenti costosi che non sono produttivi quanto sperato. Così licenziano in massa e dopo poco si danno da fare per tornare ad assumerli. Questo ciclo alterno, scrive l’autore, è altamente distruttivo: a prescindere dai costi umani e sociali, è un modo estremamente inefficiente di gestire qualunque risorsa, per non parlare dei knowledge worker. Il problema esiste, egli ritiene, perché molte aziende fraintendono gli aspetti per cui il knowledge work si differenzia dal lavoro manuale. Esse pensano di dover strutturare il primo come il secondo, dove ogni lavoratore svolge lo stesso compito per un intero turno. Ma assumono anche che la conoscenza si identifichi coi lavoratori e sia quasi impossibile codificarla e trasferirla come si può fare col lavoro manuale.
Il guaio è che il knowledge work si presenta primariamente in forma di progetti e non di compiti quotidiani di routine, così questi dipendenti hanno spesso dei tempi morti. Naturalmente non è nel loro interesse pubblicizzare qualsivoglia capacità di riserva – perché potrebbe condurre a giudizi di scarsa performance o anche al licenziamento – e questo imperativo di sopravvivenza intralcia il trasferimento di conoscenze. La soluzione è strutturare il knowledge work nel modo in cui lo fanno le aziende di servizi professionali – facendo in modo che le competenze fluiscano ai progetti che ne hanno bisogno – e assegnare a dirigenti chiave la responsabilità di codificare la conoscenza.