A partire dal 1960 l’economia americana ha preso a cambiare: i massicci flussi finanziari dedicati allo sfruttamento delle risorse naturali hanno cambiato direzione e sono stati indirizzati a ricavare il massimo dai talenti. Come risultato, dirigenti ed esponenti della finanza ne hanno ricavato enormi benefici. Ma negli ultimi due decenni, sostengono gli autori, è divenuto sempre più chiaro che molto di questo talento si risolve nello scambiare valore e non nel crearlo: il gruppo che cresce di più nella classifica Forbes 400 è quello dei gestori di hedge fund. E più rilevante ancora è il fatto che gli incentivi basati sulle azioni, pensati per allineare gli interessi dei top manager a quelli degli azionisti di lungo termine, stanno attualmente incoraggiando i CEO a servire gli interessi dei trader di breve periodo. Chi perde a questo gioco sono i dipendenti impegnati nelle attività quotidiane, i cui compensi si vanno riducendo o i cui posti di lavoro vanno scomparendo.
Questo stato di cose ha creato una crescente, e insostenibile, disuguaglianza nei redditi. Martin sostiene che debbano verificarsi tre condizioni per evitare provvedimenti radicali e ostili ai talenti imposti per via elettorale: (1) i talenti devono esercitare un qualche genere di auto-disciplina e abbassare le proprie aspettative: (2) gli investitori – soprattutto i fondi pensione e i fondi sovrani – devono dare la priorità alla creazione di valore; ciò significa non votare più a favore di retribuzioni basate sulle azioni e non fornire più agli hedge fund grandi quantità di capitale o dar loro azioni in prestito; (3) i Governi dovrebbero regolare i rapporti tra hedge fund e fondi pensione (se i secondi non lo faranno volontariamente), tassare le commissioni di performance come reddito ordinario, tassare gli scambi e rivisitare l’intera struttura fiscale.