NELL’EDITORIALE DELLO SCORSO NUMERO richiamavo quanto emergeva da uno degli articoli dello Speciale dedicato al “lato soft delle negoziazioni”, ossia l’importanza dell’aspetto emotivo, sottoline- ando il fatto che tenere conto degli elementi irrazionali, nella realtà delle organizzazioni, equivale a comportarsi in modo altamente razionale. Questa constatazione risalta con ancora maggiore vigore nel considerare gli articoli dello Speciale di questo numero dedicati all’organizzazione emozionale. Due punti emergono con particolare evidenza, ma non sono del tutto omogenei e per questo motivo richiedono qualche commento. Il primo punto, ai giorni nostri abbastanza intuitivo e probabilmente condiviso, è che nelle organizzazioni occorre tenere presenti gli aspetti emozionali, delle persone sin- golarmente prese e del corpo aziendale nel suo insieme. Il secondo punto è meno intuitivo ma proba- bilmente, una volta espresso, altrettanto ampiamente condiviso: c’è un limite alla disponibilità umana, troppa empatia esaurisce i rapporti e le persone e, per dirla in breve, collaborare (troppo) stanca.
Si potrebbe quindi dire che siamo un po’ al festival dell’ossimoro: per essere razionali consideriamo i fattori irrazionali, e per migliorare la collaborazione empatica mettiamo un limite all’empatia. Si può fare, ma occorre consapevolezza.
Nell’articolo di Barsade e colleghi si cita un’azienda che per meglio seguire le motivazioni dei dipen- denti ha messo un bottone all’uscita che consente di esprimere una gamma di sentimenti che vanno dalla gioia alla frustrazione. Nell’epoca degli emoticon nulla potrebbe sorprenderci di meno, ma fun- ziona? È vero che è sano preoccuparsi se i dipendenti sono più o meno soddisfatti, ma il bottone della felicità ha senso comune o è un espediente di una direzione HR che ha perso i punti di riferimento tradizionali ed è alla disperata ricerca di qualcosa di nuovo per capire le persone, specie se si tirano in ballo i millenials?
Occorre, si insiste, parlare di cultura aziendale e considerarne non solo il lato cognitivo ma anche quello emotivo, la cultura profonda del gruppo, i legami emotivi. La distinzione critica è tra ragio- namento e sentimento, due culture che devono convivere e trovare il modo di comunicare meglio: la prima ha modalità di espressione prevalentemente orali, la seconda è più simbolica e gestuale. Con- clusione? E’ la “rivoluzione affettiva” baby, e fai meglio a capirla in fretta o farai la figura del dinosauro, e probabilmente la sua fine.
C’è però un ma, e sta nello stesso Speciale, altro autore, altro articolo, essenzialmente quello di Waytz con supporto esterno di Cross e soci. Come indica il titolo in copertina, la collaborazione irrigata dalla disponibilità di alcune persone ad aiutare gli altri e fertilizzata da una coerente disposizione all’apertura della stessa organizzazione ha effetti certamente positivi, ma se portata al di là di limiti di buon senso, in qualche caso anche quantificabili, produce danni e inefficienze. Potrà magari non piacere, ma anche troppa empatia può produrre stress e sovraccarico, e il circolo che in partenza è virtuoso si trasforma in vizioso, la persone si logorano, i rapporti ne risentono, l’efficienza ne soffre. I correttivi esistono e richiedono di distinguere tra i diversi tipi di risorse collaborative (informative, sociali, personali), il che non è semplice, ma si può fare.
Siamo in periodo di revisione e riconsiderazione di molte realtà delle organizzazioni. Le tecnologie avanzano, lo smart working s’impone, i giovani premono alle porte con quelle che riteniamo siano modalità nuove di rapporto, mentre i meno giovani fanno fatica a imboccare il viale del tramonto, un po’ delusi per la scarsa considerazione che le leggi sul lavoro hanno della loro storia professionale. Le aziende sono luoghi di rigore e razionalità, ma tenere presenti le emozioni e i sentimenti dei singoli e delle organizzazioni è un invito da tenere presente. Certo, con le dovute cautele.