EPPUR SI MUOVE, verrebbe da dire con Galileo. Finalmente un importante leader (in questo caso, divenuto da poco ex leader) d’impresa che dichiara che «è arrivato il momento che i CEO si esprimano sulle inaccettabili e inappropriate dimensioni e modalità delle retribuzioni». Si tratta di A. G. Lafley, da qualche mese in pensione, dopo aver fatto per molti anni le fortune di P&G in veste di CEO. Da un pulpito come il suo la predica non può e non deve passare inosservata. I tracolli della crisi hanno solo messo in maggiore evidenza i danni di retribuzioni ai dirigenti basate su meccanismi perversi, che in molti casi hanno portato a privilegiare gli obiettivi a breve a scapito della sostenibilità, a massimizzare gli utili per premiare gli azionisti a scapito degli altri stakeholder, a stravolgere i principi della buona gestione per ottenere premi in azioni più consistenti del dovuto.Lafley non ha timore di attirarsi le invettive dei colleghi ed ex colleghi e propone alcuni importanti principi equilibratori, partendo comunque dall’assunto di base che in ogni caso un tetto ai super-stipendi va comunque posto (o imposto). D’altronde, qualche decennio fa lo stesso Peter Drucker sosteneva che un dirigente non avrebbe dovuto guadagnare più di 20 volte la media della “truppa”. Ma oggi quel 20 volte è un vago e patetico riferimento, rimembrando che non sono rare mega-retribuzioni di 300 volte la media della truppa. È certamente una stortura del nostro capitalismo che qualcuno deve rimediare. Chi? Secondo Lafley la questione va presa in mano con coraggio dagli stessi CEO, o lo farà qualcun altro, come in effetti già si verifica: i Parlamenti nazionali, sotto la pressione degli elettori, l’opinione pubblica inviperita per le perdite subite con lo scoppio della bolla, i media alla ricerca di mostri da sbattere in prima pagina. Dice Lafley: «Io spero e credo fermamente che se noi CEO come gruppo abbracciamo, e implementiamo, i principi che ho elencato contribuiremo in misura significativa a ripristinare la fiducia del pubblico nel nostro sistema di capitalismo democratico». Non è un obiettivo da poco, specie se propugnato da un leader che è riuscito a raddoppiare il fatturato e a triplicare gli utili di una P&G di cui ha fatto salire la capitalizzazione di mercato di qualcosa come 100 miliardi di dollari.La questione riguarda, in realtà, sia i leader di oggi sia – e forse soprattutto – quelli di domani, di cui si occupa lo Speciale di questo numero di Harvard Business Review. Mentre la generazione del baby boom va progressivamente in pensione, la Generazione X immediatamente successiva è ormai saldamente al comando. Il sospetto è che questi cinquantenni rampanti non vogliano mai più scendere dal piedistallo e cedere le redini del comando. Alle porte premono le orde dei novelli Gengis Khan, la Generazione Y di chi è nato suppergiù tra il 1980 e il 1995, intollerante alla disciplina dei genitori e dei superiori, a suo agio con le nuove tecnologie, attaccato come un’ostrica alla propria qualità della vita che mai e poi mai deve essere disturbata dalle pressanti esigenze dell’azienda. Non che non sia ambiziosa, la Y, ma secondo le proprie regole che molte aziende ancora nemmeno conoscono. Beh, si argomenta in questo Speciale, è ora di conoscerle, comprenderle e farci debitamente i conti, portando avanti i “millenial” nel modo opportuno.Infine, in questo numero i lettori troveranno un altro stimolo preciso che riguarda le generazioni di leader di oggi e domani: l’imperativo della sostenibilità. Non di un dovere né di un’opzione si tratta, secondo gli autori Lubin ed Esty, ma di un megatrend che sta cambiando irrevocabilmente l’ambiente di business, cioè il mercato globale. Non capirlo, o essere in ritardo, è rischioso quasi quanto non capire la Generazione Y. Buona lettura!