Già, non facciamo fantasie. Possiamo anche parlare dei business leader come di eroi della mitologia greca da Ettore ad Achille, o della storia più o meno recente, da Gandhi a Roosevelt. Possiamo evocare, come fanno in questo numero Sonnenfeld e Ward, la missione eroica del capo, l’uomo o la donna di forte carattere che sanno reagire alle sconfitte di carriera e riemergere più forti di prima. Ma la verità è che i leader delle imprese sono, come è ovvio, persone come le altre, disposte a rischiare e a mettersi in gioco solo fino a un certo punto, oltre il quale subentra il principio sacro dell’autoconservazione. E allora anche i miti si tolgono l’elmo e prendono in mano la calcolatrice.Ma evitiamo di essere cinici. In fondo, se proponiamo ai lettori un numero monografico dedicato a come si diventa leader è perché la figura del capo resta di fondamentale importanza anche nell’epoca dell’organizzazione piatta e del consenso post-gerarchico. Ha scritto dieci anni fa Peter Drucker, che rimane il padre della scienza manageriale, che il ruolo del CEO non è cambiato malgrado la previsione della «fine delle gerarchie» e che «quando la barca sta affondando, ci deve essere qualcuno che dice basta con le discussioni, le cose stanno così», qualcuno in grado di imporsi e di prendere le decisioni. Insomma, le aziende divengono organismi sempre più complessi – tecnologicamente, economicamente e socialmente – e c’è la necessità di sapere in chi risiede l’autorità. Il problema è semmai esercitare questa autorità in modo efficace e collaborativo, salvaguardando gli obiettivi dell’azienda.Questo numero di Harvard Business Review Italia è intitolato «come si diventa un leader», ma nei fatti la rosa di eccellenti articoli che proponiamo ai lettori va oltre, e vuole spiegare non solo come si diventa, ma anche come si può rimanere leader nel tempo, guardarsi allo specchio e rinnovarsi. L’articolo di Linda Hill affronta il tema del neo-manager che prende in mano le responsabilità del suo nuovo ruolo e delle sorprese, alcune positive altre meno, cui va incontro. Sullo stesso argomento il saggio, divenuto ormai un classico, di John Gabarro, pubblicato originariamente nel 1985. Una riflessione estremamente attuale è quella di Ibarra e Hunter, che descrivono l’importanza di creare dei network a supporto sia del successo personale del manager, sia dell’azienda stessa.Kathleen Reardon parla di coraggio nei termini sopra citati: dunque, coraggio sì, ma «calcolato». Le domande davanti allo specchio sono oggetto dell’intervento di Robert Kaplan, un esperto abituato a calcolare le performance con gli indicatori più sofisticati (è, come è noto, assieme a Norton il creatore della «balanced scorecard»), ma anche un manager di grande esperienza, che consiglia periodici esercizi di auto-valutazione. E prima o poi per tutti arriva il momento di cambiare. Nell’articolo di Nadler si analizza il «secondo atto» di una carriera manageriale, quando si scopre che i fattori di successo che hanno garantito la prima fase non valgono più, e occorre prendere nuove strade. Ma è possibile che, in situazioni di cambiamento, l’azienda possa andare a scegliersi il nuovo leader in modo non casuale, ma secondo criteri solidi o addirittura scientifici? Attenti alle illusioni dei modelli statici e troppo strutturati, dice Mike Morrison, che propone una discussione sui modelli basati sulle competenze, nella quale si cimentano diversi alti manager americani. Infine, John Kotter, in un altro dei classici di HBR, presenta la sua analisi dei processi di cambiamento, spiegando in modo analitico quali sono gli errori più gravi da evitare e i criteri migliori per realizzare la trasformazione. Buona lettura!