Le enormi somme che le società di private equity ottengono dai loro investimenti provocano ammirazione e invidia. Questi rendimenti vengono normalmente attribuiti all’utilizzo aggressivo che queste società fanno del debito, alla focalizzazione sul cash flow e sugli utili, alla libertà di non dover rispettare le regole che competono alle società quotate e agli elevati incentivi di cui godono i manager operativi. Ma la ragione principale del successo del private equity è la strategia del comprare per poi rivendere, assai raramente utilizzata dalle società quotate, che invece ricercano le sinergie e dunque di solito comprano per mantenere. Il vantaggio principale del comprare per vendere è semplice, ma spesso trascurato, spiegano Barber e Goold, direttori dell’Ashridge Strategic Management Centre. Il punto di forza del private equity è l’acquisizione di aziende che sono state mal gestite o sottovalutate, per le quali esiste una opportunità unica di aumentarne il valore commerciale. Una volta realizzato il guadagno, le società di private equity vendono per realizzare il massimo beneficio. Per contro, un acquirente corporate tenderà a diluire il rendimento mantenendo attivo il business anche dopo l’aumento di valore. Le società quotate che competono in quest’area possono offrire agli investitori rendimenti migliori di quelli delle società di private equity. Le aziende quotate hanno due opzioni: la prima è di imitare il modello del private equity, come hanno fatto società di investimento quali Wendel ed Eurazeo, con grande successo; la seconda è di adottare un approccio flessibile, mantenendo un business finché aggiunge valore in quanto di loro proprietà. Questo secondo approccio può dare alle aziende un vantaggio sui fondi, che devono invece liquidare l’investimento entro un tempo prestabilito. Ambedue le opzioni presentano alle società quotate delle sfide, tra cui (negli USA), la tassazione sui guadagni da capitale e la necessità di forti competenze di gestione degli investimenti. Ma la barriera principale può essere rappresentata dall’avversione che le società quotate hanno per abbandonare dei business che funzionano e la loro incapacità di vedere tali business nel modo in cui lo fanno le società di private equity.