La combinazione tra il colossale deficit commerciale americano e un prezzo del petrolio oltre i 125 dollari al barile ha creato un enorme serbatoio di liquidità finanziaria nei Paesi esportatori di petrolio del Golfo. Ma questa nuova era di surplus di petrodollari è molto diversa da quella che l’aveva preceduta.Negli anni Settanta, i Paesi del Gulf Cooperation Council (GCC) – ossia Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti – avevano affidato la gestione dei loro petrodollari alle banche americane e inglesi. In questa occasione, invece, hanno adottato strategie attive di sviluppo e di investimento. Stanno investendo fortemente in grandi organizzazioni occidentali così come nei mercati emergenti dell’Africa e dell’India. Investono con grande prodigalità in patria, per installare infrastrutture istituzionali, per creare aree ad accesso agevolato per iniziative produttive e di servizi, e per costruire strutture ricettive che possano attrarre iniziative economiche, lavoratori di alto livello e turisti.Queste azioni sono destinate ad avere effetti di lunga durata non solo sulle loro economie, ma anche sul commercio regionale e internazionale, sostengono Abdelal, Khan e Khanna, della Harvard Business School. Sono, infatti, decisioni d’investimento che pongono gli Stati del Golfo sempre più vicini al centro del sistema finanziario internazionale. In questo articolo, gli autori analizzano l’impatto che le nuove strategie d’investimento degli esportatori di petrolio avranno nei prossimi decenni sul panorama economico dell’Occidente, gli effetti sui vicini mercati del Medio Oriente e le conseguenze sulla realtà interna dei Paesi GCC.