Aziende italiane poco versate nel crowdsourcing

di Paolo Magrassi  |  Mercoledì, 20 Luglio 2011

Il crowdsourcing, ossia la ricerca di collaborazioni “nella nuvola”, è un fenomeno ricco e articolato, che si può riguardare da diverse angolazioni. Ne fanno parte, ad esempio, le richieste di collaborazione wiki-based, come la programmazione Open Source o come quando un’azienda invita il pubblico a produrre da sé il manuale d’uso di un prodotto complicato, tipo uno smartphone o uno strumento finanziario. Sono esempi di crowdsourcing anche le interrogazioni rivolte a una massa di individui per fare previsioni, come nei “predictive markets”; il crowdfunding stile indiegogo; e forse lo stesso social lending, stile Zopa e Lending Club. Ed è naturalmente crowdsourcing anche quando un ente pubblico o un’azienda interroga il pubblico per risolvere un problema, emettendo dei bandi attraverso appositi siti web che possono essere proprietari o gestiti da terzi.

I bandi descrivono quali sono i compiti per cui serve aiuto. Il più delle volte si tratta di ricerche piuttosto ordinarie: ricerche di traduttori o fotografi per un convegno, idee per una campagna pubblicitaria, programmatori per il debugging, addetti al data entry. È un’alternativa al tradizionale appalto di terze parti. A volte però può diventare anche un’alternativa all’utilizzo esclusivo dei collaboratori interni per compiti più delicati che non quelli meramente esecutivi, come per esempio le innovazioni di prodotto o di processo. Dopo venti anni di web, è sciocco continuare a credere che le idee innovative possano o debbano provenire solo da chi lavora dentro l’azienda o dai collaboratori esterni istituzionali, come consulenti e partner. Meglio sarà approfittare dell’enorme bacino di intelligenza e competenza che risiede là fuori. Ecco che, allora, certe aziende hanno cominciato già alla metà degli anni Novanta a creare siti web attraverso i quali invitare il pubblico generale a partecipare alla creazione di innovazioni.

Ben presto, sulla scorta di quella idea, sono nati dei broker di innovazione, come Innocentive o Yet2.com, specializzati nel mettere in contatto aziende, enti pubblici e organizzazioni non-profit da un lato e, dall’altro, persone o piccole imprese potenzialmente capaci di contribuire. Sui siti web di quei broker, le organizzazioni che cercano invenzioni e idee innovative postano le proprie richieste, promettendo premi in denaro e consegnandoli a chi presenta la soluzione migliore. Gli argomenti vanno dalla genetica alle telecomunicazioni, dai metodi per la pulizia automatica delle toilette alla meccatronica nanometrica, dalle tecnologie agroalimentari all’innovazione delle agenzie bancarie. Chiunque senta di avere le competenze necessarie si sceglie il quesito al quale rispondere, ci pensa e formula una proposta. Alla scadenza prefissata, l’ente (spesso anonimo, per evidenti ragioni di concorrenza) che ha postato il quesito decide se qualcuno merita di essere premiato e quindi remunerato per la sua proposta –con premi prefissati il cui ammontare è compreso tra i 5mila e i 50mila dollari.

Il broker, dal canto suo, vigila sulla regolarità del processo. Mentre inizialmente su questi marketplace si trovavano solo richieste di innovazioni di prodotto a base fortemente tecnologica, da qualche anno sta crescendo anche il numero delle richieste di innovazioni di processo. Si può interrogare il web circa come diffondere servizi bancari in territori remoti, come integrare Twitter o LinkedIn nel software applicativo Sap, o come accrescere l’utilizzo dei trasporti pubblici a Chicago per ridurre l’inquinamento. Beninteso, la parte difficile consiste nel trovare le domande giuste. Molte innovazioni non nascono dalla formulazione e conseguente soluzione di un problema specifico e ben definito, bensì da un’illuminazione, un’idea improvvisa che spesso può nascere per analogia osservando lo svolgimento di un processo o il funzionamento di un prodotto in un contesto del tutto diverso da quello dell’azienda. Comunque, sui siti di brokeraggio d’innovazione gli italiani di segnalano molto più come SOLVERS (ossia individui che propongono idee solutive) che non come CHALLENGERS (ossia aziende ed enti che chiedono soluzioni). Dunque, i nostri imprenditori sono riluttanti a partecipare alle grandi opportunità della open innovation. È un peccato.

Paolo Magrassi
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