Il management è una professione? Fuori le prove

di Jeffrey Pfeffer  |  Giovedì, 04 Aprile 2013

Qualche anno fa un Comitato Remunerazione di cui facevo parte stava deliberando sull’uso delle stock option per il gruppo dirigente. Capitava che Donald Hambrisk della Penn State University avesse appena pubblicato una ricerca piuttosto rivelatrice su come le stock option impattassero sulla gestione del rischio in azienda. Quando chiesi al nostro consulente per le retribuzioni se avesse per caso sentito parlare di quest’articolo, mi rispose di no. Quando mi offersi di mandarglielo (con altri importanti articoli scaturiti da voluminose ricerche sull’argomento) si mostrò disinteressato.

Come poteva una persona che pagavamo così cara per i suoi consigli essere così indifferente a delle prove che avrebbero potuto determinare le nostre decisioni? E perché i miei colleghi di board non considerarono questo fatto come un buon motivo per mettere in discussione i nostri criteri di selezione dei consulenti? Ero contrariato, ma ben poco sorpreso. Per essere onesti, va detto che la condotta del nostro consulente non era per niente insolita. Quando raccontavo questa storia a colleghi nel settore della consulenza HR, questi arrivavano piuttosto spesso a sospettare che mi riferissi a qualcuno della loro società.

Rakesh Khurana della Harvard Business School si è imbarcato in una campagna per far sì che il management diventi una vera professione e ha ragione quando sostiene che oggi non lo è. Ma Khurana si concentra su uno specifico aspetto delle professioni: l’adesione a “obiettivi superiori” rispetto al proprio interesse o al vantaggio economico. Ma le professioni hanno un’altra caratteristica che le definisce: un corpo specialistico di conoscenze che chi opera è costretto ad applicare nel lavoro quotidiano.

Nel campo del diritto una persona deve superare un esame per avere accesso alla professione. In medicina ai dottori è richiesto un aggiornamento professionale continuo. Ciò che conta, tuttavia, non sono il diploma o i corsi in quanto tali, ma l’orientamento mentale complessivo secondo cui la pratica effettiva dipende dalla conoscenza dei progressi nel campo specifico.

Nel business, il movimento verso l’utilizzo dei migliori dati scientifici disponibili per prendere decisioni -  il cosiddetto evidence based management  - sembra essere in ascesa. Gode del forte sostegno della Academy of Management e del Conference Board. L’idea di competere con gli analytics sta guadagnando terreno. La comunità del venture capital sta attivamente investendo in start-up che offrono soluzioni in grado di lavorare a fondo i dati grezzi per ottenere informazioni strategiche di pratico utilizzo.

Ma stabilire standard più alti di conoscenza per i manager richiederà azioni specifiche da parte di molte altre comunità.

Iniziamo dalle business school, che sono la più autorevole fonte di ricerca sul management e che hanno molti motivi per credere nel suo potere. Come hanno dimostrato J. Scott Armstrong della Wharton School e altri, la ricerca è il fattore differenziante che fa sì che le lauree erogate da alcune scuole siano migliori di altre. Molte hanno la necessità di consolidare questo loro punto di forza. Il rigore, per esempio, può essere eroso quando gli studenti chiedono insegnanti più brillanti per i corsi facoltativi (spesso in campi come la leadership o l’imprenditorialità) e le università ricorrono a dei professionisti. Non c’è niente di male nel ricorrere alla voce dell’esperienza, spesso è in grado di lasciare impressioni più profonde. Ma se queste persone non sono in grado di proporre un approccio pratico basato su conoscenze scientifiche, la loro influenza può indebolire le basi intellettuali della formazione al business.

Le pubblicazioni di management hanno a loro volta un ruolo da svolgere. Troppi libri e articoli – anche in riviste accademiche – si sforzano di offrire importanti idee innovative, ma spesso non ci riescono. Quando i redattori di queste riviste ignorano le ricerche pregresse, minano alla radice il concetto di accumulazione del sapere. Quando non sono in grado di contestare una metodologia, finiscono col pubblicare risultati non validi. (Una domanda che sembra non essere quasi mai rivolta è questa: la misurazione dei risultati viene dopo la misurazione dei fattori che si ritiene li abbiano prodotti?). 

Gli attori più importanti sono, tuttavia, le organizzazioni pubbliche e private dove il management opera. Esse devono coltivare nelle loro persone la convinzione che le buone decisioni dipendano da prove evidenti e dai dati. Devono indurre i manager ad avvalersi di ricerche ben fatte e a imparare consapevolmente dall’esperienza. L’esercito americano conduce regolarmente analisi post-azione; gli ospedali convocano riunioni per esaminare mortalità e morbilità. Ma queste revisioni formali e volontarie delle decisioni e dei relativi risultati sono alquanto rare nelle aziende, anche in quelle che hanno preso costosi abbagli.

Sorprendentemente è nel mondo delle start-up, dove vi sono presumibilmente minori risorse da dedicare all’analisi e meno tempo da dedicare alla riflessione, che ho osservato il grado più alto di ricorso all’accumulo di dati empirici. Fa parte dell’ethos del movimento delle “lean start-up”; dopotutto, esiste forse un modo migliore per tagliare i tempi e i costi di sviluppo dell’evitare gli errori?

Prima che il management possa essere considerato una professione, chi lo pratica dovrà considerarsi parte di uno scopo superiore. Ma è stato necessario ben più che un fine più alto per far progredire la medicina al di là dell’empirismo dei ciarlatani. È stata necessaria la scienza e le sue applicazioni pratiche. In un mondo afflitto da problemi complessi, dobbiamo avere maggiori garanzie che anche i manager ricorrano a conoscenze più grandi di quelle che già possiedono. 

 
Jeffrey Pfeffer
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