La crisi dell’innovazione e i gli errori dell’Italia sul digitale

  • di Andrea Granelli


  • Innovazione e Tecnologia


Secondo il Rapporto sulle telecomunicazioni di Asstel uscito a giugno di quest’anno, la banda larga (infrastruttura ADSL) raggiunge il 95,6% degli italiani. Lo sforzo di infrastrutturazione anche del fisso (oltre che del mobile) è stato notevole: i collegamenti in fibra sono cresciuti del 9% e sono stati installati il 9% in più di DLAM rispetto al 2011, per un totale di oltre 28,6 milioni di linee fisse, che corrispondono al 25% in più rispetto al 2011. Un mese dopo il presidente dell’Agcom Angelo Cardani – illustrando i dati della consueta relazione annuale dell’Agenzia in Parlamento – ci ha ricordato che «un italiano su tre vive ai margini della rete». «La rappresentazione più brutale della domanda di Internet in Italia – ha aggiunto – è quella che vede il nostro paese al quarto posto in Europa nella non invidiabile classifica del numero di individui che non ha mai avuto accesso a Internet”. Il 37,2% contro una media UE27 del 22,4%».

Questa situazione non è più accettabile, anche perché questa incapacità di cogliere i benefici della rivoluzione digitale sta minando alla base le capacità competitive del Sistema Italia. Il rilancio del settore ICT non può essere fatto in maniera isolata, ascoltando solo i fornitori. Non basta riempire di slogan le Agende Digitali, fare piani futuribili per le Smart City e vedere nelle start-up digitali l’unico futuro possibile del nostro Paese, se questo percorso è – come è stato fino ad oggi – guidato esclusivamente da chi le tecnologie le fornisce e non da chi dovrebbe utilizzarle.

Questo metodo ha oramai mostrato in maniera evidente i suoi limiti. Il digitale non è una filiera, ma un vero e proprio ecosistema dove la sua sopravvivenza (o meglio il suo buon funzionamento) dipende da molti attori: non solo clienti e fornitori, ma anche utenti (soprattutto quelli potenziali), mondo della ricerca, sistema formativo. Un ecosistema che viene anche danneggiato dagli aspetti più problematici del digitale, di cui poco si parla: costi energetici, eWaste, inquinamento informativo, rischi della privacy, invasione delle mail, problemi legati al monopolio di Google ecc. Come scrisse Elias Canetti ne La provincia dell’uomo: «Il progresso ha dei vantaggi. Ma ogni tanto scoppia».

Oramai considerare come punto di partenza solo il potere abilitante (e mirabolante) delle tecnologie (“incominciamo a ridurre il digital divide, e poi tutti si auto–risolverà”, “riempiamo le scuole di lavagne digitali eiPad e il nostro sistema formativo ritornerà competitivo”…) ha mostrato i suoi limiti. Dobbiamo ripartire dalle vere opportunità (o problemi), quelle di cui futuri utilizzatori sono già consapevoli e hanno solo bisogno di un piccolo aiuto (o economico o formativo) per fare l’ultimo miglio. Pensare che siano i fornitori di ICT a definire le priorità delle aziende clienti poiché questi clienti “non si rendono conto o non capiscono i vantaggi del digitale e sono quindi come indigeni da alfabetizzare” non ha senso. Oltretutto l’ipotesi che sottende questi atteggiamenti è che la colpa dello scarso utilizzo del digitale sia in massima parte causata dalla pervasiva (e perdurante) ignoranza dei potenziali utilizzatori.

Dobbiamo invece incominciare a domandarci perché – dove la larga banda c’è e da tempo e dove c’è abbondanza di formazione al digitale – ancora oggi moltissime piccole imprese continuano a non essere collegate, o a usare male il digitale. Sicuramente queste aziende avranno sentito parlare del digitale, avranno amici e concorrenti che lo usano, potranno provare a connettersi, avranno sicuramente in casi nativi digitali … eppure  continuano a non utilizzarlo.

Come la storia dell’innovazione ci ha insegnato – e Proust ci ricorda – «L’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi». Il cuore dell’innovazione non è necessariamente fare qualcosa di nuovo, ma soddisfare o nuovi bisogni o – in modo nuovo e migliore (spesso più semplice) – vecchi bisogni mai sopiti (spesso perché mai ascoltati).

E quindi le policy del digitale non devono ridursi a manifesti pieni di slogan su cui non possiamo non essere tutti d’accordo; manifesti perfetti per entrare un foglio A4 e occupare l’Home page di un sito di news. Il “cosa fare” non basta più; dobbiamo entrare in profondità, innanzitutto nel “perché”, senza dare per scontato il buon vecchio esercizio del business case, che oramai si è perso. Tutti i numeri che vengono annunciati pomposamente per dimostrare l’importanza della rivoluzione digitale sono più che altro dei revenue case dove si annunciano mirabolanti benefici, ma si è molto avari nel riflettere sui costi e gli investimenti necessari e sui cosiddetti effetti collaterali (a partire dai rischi attuativi e dalla distribuzione temporale di azioni ed effetti).

Ad esempio lo studio di BCG Fattore Internet. Come Internet sta trasformando l’economia italiana (commissionato da Google – certamente non neutro ai risultati – e pubblicato nell’aprile del 2011) ha “dimostrato” che nel 2010 Internet ha contribuito al PIL italiano con 31,5 miliardi di euro, pari al 2%.; afferma inoltre che questo dato più che raddoppierà entro il 2015. In uno scenario “conservativo” l’Internet economy rappresenterà 59 miliardi di euro, pari al 4,4% del PIL italiano, con un tasso di crescita annuo del 18%.

Lo studio McKinsey The Social Economy: Unlocking Value and Productivity through Social Technology pubblicato nel luglio 2012 afferma invece che in 5 settori economici esaminati, lo sviluppo di modelli di management orientati alle logiche della social organization potrebbe generare un valore compreso tra 900 e 1.300 miliardi di dollari.

Senza scomodare le società di consulenza americane, anche in casa nostra la creatività numerica non è da meno. Secondo l’Osservatorio Agenda Digitale della School of Management del Politecnico di Milano (15 febbraio 2013), l’attuazione di un’agenda digitale per il Paese può liberare risorse per oltre 70 miliardi di euro … e basterebbe così poco per attuarla.

È evidente che quando i fenomeni sono complessi non tutti i costi sono facilmente misurabili e gli effetti collaterali non sono facilmente identificabili. Einstein, nel suo studio di Princeton, aveva un piccolo quadretto dove era scritto “non tutto ciò che conta può essere contato”. Ma ciò non giustifica il fatto che queste dimensioni più scomode e problematiche vengano totalmente ignorate.

Tutti hanno però fretta di far ripartire l’economia (o perlomeno i conti economici delle proprie aziende), e allora si tende a includere nelle riflessioni solo ciò che è facile misurare, per iniettare ottimismo, come ci ricorda il leader di uno dei partiti della coalizione di Governo. Ma ancora più importante è entrare nel “come fare”. Si può dire che è importante alzare la cultura digitale delle imprese e dei cittadini italiani, ma ci sono moltissimi modi per farlo, alcuni più efficaci di altri. Ad esempio Steve Jobs introdusse la figura dell’evangelista tecnologico, infinitamente distante da colui che deve invece “alfabetizzare” masse ignoranti e informi di utenti. E lì che deve organizzarsi il dibattito e il confronto. «Il buon Dio abita nei dettagli» era solito dire il grande architetto Mies van der Rohe. Il “come fare” non è un semplice “dettaglio attuativo” – roba da tecnici – ma rappresenta la declinazione del “cosa fare”, ciò che ne dà concretezza, che lo rende possibile e utile e che ne chiarisce i veri costi e benefici. I grandi leader sanno che il come fare non è delegabile, è parte integrante del “cosa fare” e consente di spiegare meglio – e con concretezza  e credibilità – “perché” la proposta è utile. Descrivere come si vuole aiutare le imprese artigiane a fare eCommerce vuol dire i riflettere anche su elementi “esterni” al progetto – precondizioni, sinergie, parallelismi, eventuali incompatibilità – ma che possono inficiare i risultati e che quindi vanno tenuti in considerazione. Ma vuol dire anche condividere con obiettività perché fino a oggi non lo hanno fatto. 

E qui c’è un’altra debolezza del Sistema Italia. Non mi è mai capitato di sentire – lato fornitori di ICT – una minima ammissione di responsabilità sullo stato digitale in cui versa l’Italia. Come se ciò non dipendesse anche dalle offerte presenti sul mercato, dalla capacità di fare marketing, di seguire i clienti nella post–vendita, di orientare certi utilizzi, di formare in un certo modo. Anche in questo caso – come in altri temi – la risposta corale dell’Italia produttiva tende ad essere: è colpa della politica – che non fa le leggi giuste, non da seguito all’Agenda Digitale; è colpa degli utenti, che sono ignoranti e continuano a non studiare per diventare cittadini digitali a tempo pieno; è colpa delle aziende che si ostinano a rimanere piccole e non occuparsi di tecnologie e innovazione.

Io penso invece che la situazione sia un po’ diversa. I problemi e gli errori fatti sono molti e ricorrenti.

Pensiamo alla massiccia quantità di “body rental” che è stato fatto dalle aziende di software, soprattutto verso la Pubblica Amministrazione che ha creato problemi sia alla PA (dipendenza dal fornitore, difficoltà di replica – poche “economie di scala di sistema”) sia, alla lunga, alle stesse aziende fornitrici (prodotti poco competitivi, basso livello di export). Pensiamo a come viene usata la finanza agevolata, sempre meno per co–finanziare prodotti e servizi innovativi e rischiosi da lanciare sul mercato e sempre di più come modo per coprire costi fissi rimasti scoperti e farsi finanziare cose già fatte.

Pensiamo al nostro tasso di export di soluzioni digitali, distante mille miglia dai settori di punta del made in Italy, quasi come se il digitale non fosse esportabile o che l’Italia non fosse capace di esportare. Pensiamo ai soldi sprecati in attività banali di alfabetizzazione digitale, costruite sul presupposto che il digitale sia uno strumento che richieda semplicemente istruzione e non e-ducazione (consapevolezza dei suoi impatti, conoscenza dei lati oscuri, capacità di ripensare ai processi dove il digitale viene inserito…).

Pensiamo a tutte le misure per facilitare l’eCommerce delle piccole imprese, che non colgono il fatto che la sfida dell’eCommerce è molto più legata a una logistica efficace, all’innovazione nel packaging, alla capacità di fare marketing in paesi con culture di prodotto differenti dalla nostra, che non al semplice dotarsi di una vetrina digitale o all’usare con abilità il keywording per farsi trovare da Google.

Da dove ripartire dunque ? Il tema è complesso e richiede un confronto più articolato e dialogico  rispetto a quelli a cui siamo abituati, molto più dialettici e che si riducono normalmente a una semplice giustapposizione degli interessi di parte (con alcune controparti espertissime a far sentire la propria voce e altre che non vengono neanche ascoltate). Seguendo il suggerimento di un interessante libro sul confronto creativo scritto a due mani dall’etnografa urbana Marianella Sclavi  e dal professor Lawrence E.Susskind (decano del MIT, fondatore del Consensus Building Institute e direttore del “MIT-Harvard Public Disputes Program”), bisogna passare dal “diritto di parola” al “diritto di essere ascoltati”, creando luoghi e processi per ascoltare davvero le “ragioni” degli utenti.

Forse è veramente venuto il momento di costruire una via italiana al digitale (riprendendo tra l’altro il percorso iniziato da Camillo e Adriano Olivetti). Non si tratta di banale campanilismo o di nostalgia del passato: lo abbiamo già fatto nella manifattura (made in Italy e cultura del design), nell’agroalimentare (da Slow Food alla Dieta Mediterranea), nel turismo culturale centrato sulle città d’arte, nel terzo settore e mondo del volontariato: si tratta di unire visione, progettualità, offerta e comunicazione (istituzionale e commerciale) in modo da saldare il potere delle nuove tecnologie con la vocazione dei nostri luoghi e del nostro “intraprendere”: trovare dunque un dialogo più autentico e sostenibile tra tradizione  e innovazione.

Per fare ciò quattro dovrebbero essere – a mio modo di vedere – i filoni da cui (ri)partire, approfondendo in maniera prioritaria e specifica i percorsi attuativi (il come) grazie anche a business case robusti e credibili.

Il più importante e prioritario è certamente il tema educativo. Oggi tutta l’enfasi è sull’alfabetizzazione e non sulla creazione di una vera e propria cultura digitale (e questo non è un semplice gioco di parole). Alfabetizzare vuol dire istruire, addestrare all’uso di uno specifico strumento (che si ipotizza utile e adatto). Il concetto richiama quello che i coloni facevano per portare un po’ di civiltà agli indigeni “ignoranti”). Quello che invece serve è la creazione di una consapevole cultura digitale, che ha come obiettivo fertilizzare e coltivare campi già produttivi o che oggi producono poco, e non necessariamente creare solo nuove attività (come le app, i maker …). Oltretutto, anche nella cosiddetta eEducation – l’apprendimento mediato dal digitale – l’attenzione è oggi tutta sull’eTeaching (produzione di nuovi e sfavillanti contenuti educativi in formato digitale) e quasi nulla viene fatto sul vero eLearning, per assicurarci che quella conoscenza venga davvero assimilata e riutilizzata dai discenti.

In secondo luogo, bisogna accettare la piccola dimensione come dato di fatto, come caratteristica di una parte rilevantissima dell’economia italiana (piccole aziende, artigiani, professionisti, ex “coltivatori diretti”…) e invertire l’approccio alla costruzione e vendita delle soluzioni digitali, passando da “come possiamo mettere in condizioni le aziende di capire e comprare le offerta che abbiamo a portafoglio” a “come possiamo identificare i reali bisogni di questa tipologia di attori economici e costruire delle soluzioni ad hoc che li soddisfino, rafforzandone la tenuta competitiva”. Il mito della crescita ha condizionato anche lo sviluppo delle applicazioni digitali, pensate per aziende grandi o che cresceranno.

Il terzo suggerimento è concentrare le competenze digitali del Paese verso settori dove potremmo costruire un’offerta competitiva ed esportabile: pensiamo alla protezione e valorizzazione del patrimonio culturale, al turismo delle città d’arte, alle infinite applicazioni dal digitale al settore agroalimentare, alle sfide del welfare legate all’invecchiamento della popolazione, che vedono il nostro non solo tra i Paesi con la maggiore incidenza di anziani sulla popolazione, ma anche un luogo ideale per vivere dal punto di vista climatico e che ha sperimentato forme molto innovative (diremmo modelli di business) fra terzo settore e mondo del volontariato e luoghi di eccellenza.

L’ultima riflessione è di tipo metodologico, relativa a come si deve affrontare l’introduzione di soluzioni digitali nelle imprese. Il digitale ci deve consentire di ripensare in profondità ai processi e non semplicemente automatizzarli. La semplice automazione spesso rischia di congelare e rendere permanenti le inefficienze già presenti. Per fare ciò dobbiamo essere in grado di misurare l’impatto oggettivo delle tecnologie digitali sui processi aziendali per evitare cattive sorprese; inoltre dobbiamo comprendere le trasformazioni antropologiche indotte dal digitale per introdurre soluzioni che siano effettivamente potenzianti e che ci consentano di irrobustire i punti di forza e – nel contempo – contrastare le debolezze. 

Pertanto il fenomeno delle Smart City, le nuove soluzioni Cloud, la diffusione dell’Internet delle Cose e la rivoluzione dei FabLab possono davvero dare all’Italia un vantaggio competitivo, purché rafforzino ciò che sappiamo fare e che abbiamo sempre fatto, potenziandolo (e naturalmente  correggendone gli errori ed eliminandone le obsolescenze). Non è certo snaturando il nostro sistema produttivo e inseguendo un modello di impresa (e di città) ideale e lontano dalle nostre radici – da raggiungere a forza di alfabetizzazioni forzate e sussidi di uno Stato sempre più povero – che troveremo la via del rilancio economico e daremo al digitale il posto che giustamente gli spetta nell’economia del XXI secolo.  

 

Andrea Granelli è presidente di Kanso, società di consulenza specializzata in innovazione e change management. 

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