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Non lasciate che i big data seppelliscano il vostro brand

  • di Peter Horst e Robert Duboff


  • Strategia e Concorrenza


Il colosso delle carte di credito Capital One è noto per l'uso pionieristico che fa delle analitiche di marketing e dei big data; può quindi sorprendere che si sia  recentemente reso conto di come un'eccessiva dipendenza da questi strumenti l'avesse lasciata priva di un marchio significativo. Gli autori spiegano che il compito numero uno del CMO – definire il giusto equilibrio tra le promozioni che alimentano il fatturato sul breve periodo e le campagne di costruzione del marchio che garantiscono margini corretti sul lungo termine – è diventato decisamente più arduo nell'era del targeting basato sui dati. Il brusco risveglio di Capital One è avvenuto quando il CEO Rich Fairbank ha commissionato uno studio sul brand equity, il patrimonio di marca, studio che ha rivelato quanto l'azienda fosse nota ai consumatori per un'unica caratteristica, assolutamente preponderante: “Mandano un sacco di mail”. A questo punto lo sforzo per rafforzare il brand e dare a Capital One una base più sicura per la crescita futura si è coagulato intorno a cinque punti, tutti elaborati e perfezionati nel dialogo con altri responsabili marketing - tra cui Toni Pace di Subway, Mark Addicks di General Mills, Tariq Shaukat di Caesars Entertainment, Russell Weiner di Domino’s e Jim Speros di Fidelity - i quali sperimentavano la stessa tensione all'interno delle loro organizzazioni molto diverse.

 

 

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