Oltre il mito dell’olocrazia

  • di Ethan Bernstein, John Bunch, Niko Canner e Michael Lee


  • Risorse Umane e Organizzazione


La maggioranza degli osservatori che commentano il sistema olocratico e altre forme di autogestione all’interno delle aziende assumono posizioni estreme, che esaltano gli ambienti di lavoro “piatti” e “senza capi” per la loro capacità di promuovere impegno e flessibilità o al contrario li stigmatizzano  come esperimenti ingenui che ignorano come vanno le cose nella realtà. Per guadagnare un punto di vista più preciso ed equilibrato gli autori hanno attinto all’esempio di Zappos, Morning Star e altre aziende analizzando come queste organizzazioni si sono evolute e come operano, sia in prima linea che a livello di strategia e policy globali. 

Tipicamente i modelli di auto-organizzazione hanno in comune tre caratteristiche:

La struttura è fatta dai team, al cui interno il “ruolo” di ciascuno viene definito collettivamente e assegnato in funzione del progetto in corso.

I team si autoprogettano e autogovernano, rimanendo comunque parte di una struttura più ampia.

La leadership è contestuale. È attribuita ai ruoli e non alle persone; le responsabilità ruotano a seconda delle capacità e del progetto.

Adottare un modello di autogestione radicale, utilizzandola per decidere che cosa va fatto, chi lo fa e come le persone vengono ricompensate a tutti i livelli, è un’operazione difficile e incerta e gli autori sostengono che in molti ambienti non paga. Ma i loro studi e la loro esperienza sottolineano come alcuni elementi di auto-organizzazione possano diventare strumenti preziosi per aziende di ogni genere ed evidenziano le circostanze in cui ha più senso integrare i nuovi approcci con i modelli tradizionali.

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