Due sono le posizioni prevalenti, nel dibattito permanente sulla capacità di competere delle imprese italiane nei mercati globali. La prima sostiene che per riuscire non tanto ad avere successo quanto anche solo a sopravvivere, occorre dare una urgente accelerazione agli investimenti in ricerca e sviluppo, migliorare l’intero sistema della ricerca, pubblico e privato, e accrescere i livelli di istruzione per creare nuovi talenti, trattenere quelli che ci sono e attirarne di nuovi da altri Paesi. La seconda ritiene, invece, che l’Italia non debba cercare di seguire la strada di altri Paesi (come gli Usa, la Germania, il Giappone, l’Irlanda, la Finlandia, Singapore o Israele) e puntare a eccellere nella ricerca, nelle nuove tecnologie, nelle scienze e nei sistemi avanzati, bensì fare leva sulle specificità del tutto italiane della piccola impresa fortemente creativa e flessibile, sull’adattamento di tecnologie importate, sui servizi turistici o alla persona, sul migliore utilizzo delle professionalità esistenti.Sono, naturalmente, semplificazioni di due posizioni assai più complesse, ma rispecchiano comunque le istanze fondamentali. Come spesso succede, la formula vincente dovrebbe stare nel mezzo e mutuare qualche componente dalle due posizioni limite. In questa sede, basta sottolineare che il dibattito è aperto e che nel frattempo poche decisioni vengono prese e molte posizioni di competitività perse. Dunque, sarebbe bene rifletterci di più in ambito pubblico e privato ed evitare di perdere altro tempo prezioso sperando nel sempiterno stellone italiano.Il tema dell’innovazione è ampiamente trattato in questo numero di Harvard Business Review Italia: un articolo di McGrath e Keil rileva che spesso le nuove iniziative di business falliscono senza che le aziende riescano a estrarre il benché minimo valore dall’esperienza, e consigliano metodologie più articolate per valutare successi e fallimenti. L’articolo di Guido Feller tocca invece proprio il tema dell’innovazione nelle imprese italiane e, dopo avere analizzato la situazione, avanza una proposta strategica per rilanciare innovazione e competitività.Un ampio spazio è poi dedicato a questioni di leadership, con declinazioni diverse. Coyne e Coyne affrontano la complessa questione della successione al vertice: quando arriva un nuovo CEO, spesso i manager fanno le cose sbagliate e vengono estromessi. L’articolo propone alcune soluzioni per evitare che brillanti carriere vengano prematuramente stroncate. Sempre in tema di leadership, Ready e Conger toccano il tema dei talenti. Molte sono le aziende che ne lamentano la scarsità, così gli autori propongono esperienze e criteri per fare diventare ogni azienda una fabbrica di talenti. E l’intervista a Socolow tratta la questione della caccia ai migliori talenti sotto un diverso profilo, traendo spunto dall’esperienza della Fondazione MacArthur in America.Di grande interesse, anche per molte aziende italiane, l’articolo di Bryce e Dyer sulle strategie per penetrare in mercati dominati da forti imprese, e altrettanto fortemente difesi e protetti. Infine, due articoli mettono il cliente al centro delle strategie d’impresa: sono quelli di Ranjay Gulati e di François Jacques.A coronamento di questa serie di contributi, si pongono, infine, i commenti di Vincenzo Novari (3 Italia), Stefano Venturi (Cisco), Francesco Lamanda (Mercer), Anna Gervasoni (Aifi), Walter G. Scott, Luca Pacces (Spencer Stuart), Massimo Ambanelli (Kamps), Andrea Negrin (Benetton) e Francesco Forlenza (Ferrovie dello Stato). Buona lettura!