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Il management per il XXI secolo

  • di Enrico Sassoon


Il management come disciplina non ha mai avuto vita facile. Gli economisti macro l’hanno sempre visto come materia ancillare, se non proprio di secondo piano, e decisamente più con caratteristiche umanistiche che non scientifiche. Tra chi gestisce le organizzazioni – imprese, dunque, ma non solo - molti ritengono che non occorra studiare per essere manager, e soprattutto leader, e che la pratica faccia aggio sulla teoria. Nell’opinione pubblica, poi, parlare di management equivale spesso a sollevare il sospetto che si tratti di come fare soldi a spese dei lavoratori e dei consumatori.
Ma il pensiero, la cultura e la pratica del management sono cresciuti nel tempo nonostante tutto questo e oggi, in occasione del 90° anniversario della creazione e del lancio della Harvard Business Review, si coglie l’occasione per ragionare su più di un secolo di evoluzione.
Innanzitutto va detto che se gli scettici e critici sono stati e sono ancora numerosi, i manager in stragrande maggioranza ritengono che studiare in modo approfondito le metodologie manageriali e la cultura di gestione, sia non solo importante, ma indispensabile. E allo stesso modo le imprese che chiedono loro la conoscenza degli strumenti e lo spirito di una gestione equilibrata dell’organizzazione. Come scrivono Bloom, Sadun e Van Reenen, il management funziona davvero e lo si dimostra con lo studio della realtà.
Il secondo punto rilevante è che il management non è una disciplina (arte o scienza che sia) di carattere statico, ma è in continua mutazione. Nel suo articolo Kiechel ricostruisce oltre un secolo di evoluzione del pensiero manageriale attraverso i suoi principali interpreti, ormai assurti a celebrità mondiali, come Taylor, Mayo, Drucker, Porter e tanti altri. Tre fasi sono riconoscibili: il periodo dalle origini alla II Guerra Mondiale, che ha visto l’introduzione di una mentalità e metodi ispirati all’esattezza scientifica per gestire il lavoro e l’azienda; gli anni successivi alla fine della guerra, circa tre decenni in cui il managerialismo ha trionfato, con effetti molto positivi, ma anche con distorsioni e spietatezze gravi; e i tre decenni scorsi connotati da ritmi eccezionali di globalizzazione e innovazione, anche in questo caso con risultati eccelsi da un lato e distorsioni gravissime dall’altro.
Gli anni recenti, dalla crisi del 2008 a oggi, hanno aperto un quarto periodo, che ci porta dritti a guardare a come dovrà essere il management del XXI secolo. Le imprese e chi le conduce sono certamente cambiate negli ultimi cinque anni, ma avevano iniziato la modificazione anche prima. La recessione ha accentuato la crisi di un modello eccessivamente squilibrato su criteri centrati sul profitto e sul primato degli azionisti, per scoprire (o riscoprire) la necessità di concepire l’azienda come soggetto responsabile nel quadro di una società che la accoglie, attenta all’ambiente e agli stakeholder, capace di realizzare i profitti senza farne un totem cui sacrificare qualunque altra considerazione.
La rivoluzione tecnologica non è estranea a questo cambiamento di prospettiva. In sé le tecnologie sono di norma solo degli strumenti da utilizzare al meglio. Ma l’informatica e soprattutto la rete hanno introdotto strumenti non solo di incredibile potenza, ma di accessibilità universale, rendendo ciascuno di noi protagonista e le imprese aperte e osservabili come case di vetro.
Il management del futuro dovrà sempre più tenere conto di questa realtà che, con i connessi rischi di abuso che si porta dietro, obbligherà sempre più le organizzazioni a tenere conto delle persone come fulcro della loro attività e il contesto esterno come punto di riferimento necessario per elaborare e applicare strategie e comportamenti adeguati.


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