Ritrovate fiducia nella vostra creatività

  • di Tom Kelley


  • Self Management


La maggioranza di noi nasce ricca di creatività. Da bambini viviamo immersi nel gioco immaginario, facciamo domande stravaganti, disegniamo forme bizzarre che per noi sono dinosauri. Ma con il tempo e con il processo di socializzazione e di educazione formale cominciamo in molti casi a soffocare questi impulsi. Impariamo a essere prudenti nel giudizio, più cauti, più analitici. Il mondo sembra dividersi in “creativi” e “non creativi”; e molti, consciamente o inconsciamente, assegnano se stessi alla seconda categoria.

Nonostante ciò, sappiamo che la creatività è essenziale per il successo in ogni disciplina e in ogni settore. Secondo un recente sondaggio di IBM che ha coinvolto CEO di tutto il mondo, è questa oggi la caratteristica più ricercata in un leader. È innegabile che il pensiero creativo abbia permesso a innumerevoli aziende, da start-up come Facebook e Google a colossi come Procter & Gamble e General Electric, di affermarsi e mantenersi sulla cresta dell’onda.

Per sviluppare la propria creatività gli studenti spesso vengono alla “d.school” della Stanford University (formalmente conosciuta come Hasso Plattner Institute of Design e fondata da uno di noi, David Kelley), mentre le aziende si rivolgono a IDEO, il nostro servizio di consulenza per la progettazione e l'innovazione. Svolgendo queste attività abbiamo imparato che il nostro compito non è insegnare la creatività ma aiutare le persone a recuperare fiducia nel proprio potere creativo, la capacità naturale di elaborare idee nuove e il coraggio di metterle alla prova. Noi facilitiamo questo risultato fornendo loro le strategie per superare le quattro paure che bloccano la maggior parte di noi: paura di un ignoto troppo complicato, paura di essere giudicati, paura di fare il primo passo e paura di perdere il controllo.

Più facile a dirsi che a farsi, potreste dire. Tuttavia noi sappiamo che le persone sono in grado di superare anche le loro paure più radicate. Il nostro punto di partenza è il lavoro di Albert Bandura, psicologo di fama mondiale che insegna a Stanford. In uno dei suoi primi esperimenti ha aiutato i pazienti a superare una fobia dei serpenti che li accompagnava da tutta la vita, sottoponendoli a una serie di interazioni sempre più impegnative con l'oggetto della loro paura. Inizialmente lo guardavano attraverso un doppio specchio. Una volta tranquilli in questa situazione, passavano a osservarlo da una porta aperta, poi a vedere qualcun altro che lo toccava, a farlo in prima persona indossando un pesante guanto di cuoio e infine a mani nude. Tutto questo nel giro di poche ore. Bandura definisce questo processo, in cui si sperimenta un piccolo successo dopo l'altro, “padronanza guidata”. Le persone che ne hanno beneficiato non solo si sono liberate di una paura invalidante che in precedenza ritenevano incurabile, ma hanno dimostrato anche minore ansia e maggior successo in altre sfere della vita, cominciando a svolgere nuove attività sfidanti come l'equitazione o il parlare in pubblico. Le intraprendevano con maggiore determinazione, per più tempo e con una resilienza superiore di fronte ai fallimenti. Avevano maturato una nuova fiducia nella propria capacità di portare a termine quanto iniziato.

Negli ultimi trent'anni abbiamo adottato un approccio analogo per aiutare le persone a superare le paure che ne inibiscono la creatività: la sfida da affrontare viene scomposta in una serie di piccoli passi e il fatto di compierli uno dopo l’altro aumenta la loro fiducia in se stessi. La creatività non è un talento innato, è qualcosa che va esercitato. Inizialmente il processo può provocare disagio ma, come hanno imparato rapidamente coloro che erano affetti da fobia dei serpenti, presto questo sparisce per lasciare spazio a nuove capacità e a una nuova sicurezza di sé.

Paura di un ignoto troppo complicato

Nel business il pensiero creativo comincia dall’empatia con i clienti (interni o esterni che siano) e l’empatia non si raggiunge rimanendo dietro una scrivania. Certo, si sta bene nel proprio ufficio: tutto è familiare in modo rassicurante; le informazioni provengono da fonti prevedibili; i dati contraddittori vengono espunti e ignorati. Fuori il vasto mondo è più caotico. Bisogna confrontarsi con risultati imprevisti, con l’incertezza e con persone irrazionali che dicono cose che mai vorremmo sentire. Ma è questa la prospettiva reale in cui nascono visioni e svolte creative. Avventurarcisi alla ricerca di nuove conoscenze, anche senza un’ipotesi guida, può far emergere informazioni inedite e scoprire bisogni non scontati. In caso contrario si rischia di limitarsi a riproporre idee già pensate o ad aspettare che siano gli altri – clienti, superiori o addirittura concorrenti – a dirvi quello che dobbiamo fare. 

Alla d.school è routine assegnare agli studenti questo lavoro di ricerca antropologica sul campo che li spinge a uscire dalla loro comfort zone e ad andare nel mondo, finché improvvisamente non cominciano a farlo spontaneamente. Prendiamo ad esempio l’esperto di informatica, i due ingegneri e lo studente MBA che alla Stanford business school frequentavano il corso di Extreme Affordability del professor Jim Patell. A un certo punto si sono resi conto che non erano in grado di portare a termine il loro progetto di ricerca e sviluppo di un incubatrice a basso costo per i neonati dei Paesi in via di sviluppo finché continuavano a vivere nelle sicurezze della periferia californiana. Hanno preso dunque il coraggio a due mani e si sono recati nel Nepal rurale. Parlando di persona con i medici e le famiglie hanno appreso che i bambini a più alto rischio sono quelli che nascono prematuri in zone distanti dagli ospedali. Agli abitanti dei villaggi nepalesi non serve un’incubatrice a costi più bassi negli ospedali, bensì un sistema affidabile per tenere al caldo i bambini non raggiunti dalle cure mediche. Questo ha condotto il team a progettare un “sacco a pelo” in miniatura dotato di una tasca contenente una speciale resina in grado di trattenere il calore. L’ Embrace Infant Warmer costa il 99% in meno rispetto a un’incubatrice tradizionale e mantiene la temperatura necessaria fino a sei ore senza dipendere da fonti energetiche esterne. Questa innovazione è potenzialmente in grado di salvare ogni anno milioni di neonati prematuri e sottopeso, ed è stata possibile solo grazie alla disponibilità dei suoi inventori a spostarsi in un territorio inconsueto.

Un altro esempio è quello di Akshay Kothari e Ankit Gupta, due studenti del corso Launchpad della d.school ai quali era richiesto di avviare un’azienda da zero entro la fine del trimestre accademico, e cioè in capo a dieci settimane. Entrambi erano, per loro stessa definizione, dei geek, tecnicamente brillanti, profondamente analitici e irrimediabilmente timidi. Nonostante ciò hanno scelto di lavorare al loro progetto – un newsreader per iPad, che allora era appena uscito – fuori dal campus, in un caffè di Palo Alto dove erano a contatto con i potenziali utenti. Superando la difficoltà di avvicinare degli sconosciuti, Akshay ne ha raccolto il feedback chiedendo ai clienti del locale di sperimentare i suoi prototipi. Ogni giorno codificava centinaia di piccole varianti da testare, modificando un po’ tutto, dagli schemi di interazione alla grandezza dei pulsanti. E nel giro di poche settimane ha costruito un prodotto di successo. «Siamo passati da commenti sul genere: “Che cos’è questa schifezza?” a “L’App è già inserita nell’iPad al momento dell’acquisto?”», racconta Akshay. Il risultato, Pulse News, è stato pubblicamente lodato da Steve Jobs soltanto pochi mesi dopo nel corso di una conferenza mondiale di sviluppatori, è stato scaricato da 15 milioni di persone e ha trovato posto tra le 50 App originali nella Hall of Fame dell’App Store Apple. 

Ma non sono soltanto gli imprenditori e gli sviluppatori che devono buttarsi “nella mischia”. Anche gli alti dirigenti devono avere direttamente il polso di tutti coloro che sono coinvolti dalle loro decisioni. Per esempio, a metà di una sessione residenziale tenuta da IDEO per ConAgra Foods, i dirigenti hanno abbandonato le sale-conferenza di lusso per esplorare gli inospitali quartieri di Detroit dove non si trovano negozi alimentari per chilometri. Hanno osservato personalmente le reazioni degli abitanti ai prodotti alimentari e parlato a un contadino urbano che spera di trasformare in orti comunitari i lotti abbandonati. Secondo Al Bolles, vicepresidente esecutivo di ConAgra per la ricerca, la qualità e l’innovazione, si tratta di un comportamento normale in azienda:«Qualche anno fa per far uscire il mio gruppo dirigente dagli uffici bisognava tirare tutti per i capelli; ora ci avventuriamo all’esterno e incontriamo la nostra clientela sul territorio per comprendere di che cosa ha realmente bisogno».

Paura di essere giudicati

Se l’età prescolare in cui si balla, si canta e si scarabocchia in libertà è il simbolo dell’espressione creativa senza vincoli, il suo opposto è rappresentato invece dalla goffaggine dell’adolescente che tiene profondamente a quello che gli altri pensano di lui. Bastano pochi anni per sviluppare quella paura del giudizio che poi non ci abbandona da adulti e spesso interferisce con la nostra carriera. La maggior parte delle persone accetta, per esempio, che mentre stiamo imparando a sciare gli altri ci vedano cadere finché la pratica sportiva non comincia a dare i suoi frutti. Ma la nostra reputazione professionale non può essere messa a repentaglio nello stesso modo. Di conseguenza ci sottoponiamo ad autorevisione eliminando le idee potenzialmente creative per timore che superiori e colleghi ci vedano fallire. Ci atteniamo a soluzioni e opinioni “sicure”. Ci tiriamo indietro, lasciando che siano altri a correre rischi. Ma è impossibile essere creativi se ci si censura costantemente.

Metà dell’opera sta nello smettere di autogiudicarci. Chi sa ascoltare le proprie intuizioni e accogliere le proprie idee (buone o cattive che siano) è già sulla buona strada per superare questa paura. Bisogna cominciare con passi minimi, come i pazienti di Bandura. Anziché lasciar cadere i pensieri che scorrono nella testa catturateli con un qualche sistema di appunti di idee. Tenete una lavagna e un pennarello nella doccia. Programmate nella vostra agenda “spazi vuoti” quotidiani in cui la sola cosa che dovete fare è riflettere, fare una passeggiata o sognare ad occhi aperti. Quando siete alla ricerca di nuove idee puntate a 100, non a 10. Rinviate il giudizio e rimarrete stupiti della quantità di idee che avrete scovato – e che vi piaceranno – in capo a una settimana.

Quando date un feedback cercate anche di usare un linguaggio nuovo e di incoraggiare i vostri collaboratori a fare lo stesso. Alla d.school i nostri ritorni, invece di trasmettere un giudizio con stroncature quali “Questa cosa non funzionerà mai”, cominciano tipicamente con “Mi piace…” e continuano con “Vorrei…”. Partire dagli aspetti positivi ed esprimere i suggerimenti in prima persona sottintende che “Questa è solo la mia opinione e voglio essere d’aiuto”, il che rende gli ascoltatori più recettivi.

Recentemente abbiamo collaborato con Air New Zealand per reinventare la customer experience sulle lunghe tratte. Come tutti i settori molto regolamentati, le linee aeree tendono a essere conservatrici. Per superare la cultura dello scetticismo e della prudenza abbiamo cominciato con un laboratorio mirato a generare idee folli. I dirigenti hanno fatto brainstorming e poi messo a prototipo una dozzina di concetti non convenzionali (alcuni dei quali apparentemente impraticabili), tra cui imbragature per sorreggere le persone in posizione eretta, gruppi di sedili gli uni di fronte agli altri attorno a un tavolo e persino amache e letti a castello. Lo facevano tutti e quindi nessuno temeva di essere giudicato. Questa disposizione a prendere in considerazione idee pazze e a rinviare il giudizio ha portato il team della Air New Zealand alla rivoluzione creativa dello Skycouch, il sedile che consente di sdraiarsi in economy class. Inizialmente sembrava impossibile realizzarlo nello stesso spazio di quelli esistenti (infatti quelli di prima e business class ne occupano molto di più), ma il nuovo sedile fa proprio questo: una sezione imbottita si solleva come un poggiapiedi a formare con una fila di sedili un unico piano tipo futon in cui due persone possono sdraiarsi l’una accanto all’altra. Attualmente lo Skycouch è previsto su una serie di voli internazionali di Air New Zealand, che ha vinto diversi premi di settore.

Paura di fare il primo passo

Anche quando siamo disposti ad accettarle, agire sulla base delle idee creative comporta ulteriori sfide. Le iniziative creative sulle prime sono più impegnative. Lo scrittore si trova davanti alla pagina bianca, l’insegnante all’inizio della scuola, il manager a un nuovo progetto. In senso più ampio entra in gioco anche il timore di imboccare una nuova strada o di abbandonare l’andamento prevedibile del proprio lavoro. E una buona idea non basta per vincere questa forza di inerzia. Bisogna smettere di programmare e semplicemente buttarsi, cominciare; e il modo migliore per farlo è finirla di guardare all’enormità del compito nel suo complesso per concentrarsi sul pezzetto che si può affrontare da subito.

La nota scrittrice Anne Lamott illustra sapientemente questa idea con una storia che risale alla sua infanzia: il fratello doveva svolgere una ricerca scolastica sugli uccelli, ma l’aveva rimandata fino alla sera precedente la consegna. Di fronte al compito immane che lo aspettava era sull’orlo delle lacrime finché il padre non gli diede un saggio consiglio: «Uno per uno, figliolo. Procedi una specie alla volta». Trasferendo il suggerimento in un contesto lavorativo, ci si può spingere a fare il primo passo chiedendosi ad esempio: qual è l’esperimento a costo più basso? Qual è il modo più rapido ed economico per progredire verso l’obiettivo globale?

Oppure datevi una scadenza folle. Come ha fatto John Keefe, ex-alunno della d.school e redattore capo di radio WNYC, dopo che una collega aveva lamentato che la madre dovesse aspettare alla fermata dell’autobus senza sapere quando sarebbe arrivato. Se lavoraste per la società dei trasporti pubblici newyorkesi e il vostro capo vi chiedesse di risolvere il problema, in quanto tempo vi impegnereste a escogitare e implementare la soluzione? Sei settimane? Dieci? John, che non lavora per la New York City Transit, invece ha detto: «Dammi fino a stasera». Ha acquistato un numero verde, trovato il modo di accedere in tempo reale ai dati relativi alle corse degli autobus e li ha collegati a una tecnologia di sintesi vocale. Nel giro di 24 ore ha creato un servizio che permette agli utenti dei trasporti pubblici di telefonare, comunicare il numero della fermata dove si trovano e ascoltare la localizzazione del bus in arrivo. John applica lo stesso approccio audace al suo lavoro alla WNYC. «Il modo più efficace che ho trovato di praticare il pensiero progettuale è quello non di dire ma di mostrare», spiega.

Un altro esempio della strategia basata sul “partite dalle cose semplici” ci viene da un progetto IDEO per lo sviluppo di una nuova configurazione del cruscotto di un’automobile europea di lusso. Per testare le proprie idee, i progettisti hanno videoregistrato il funzionamento del modello esistente e vi hanno sovrapposto con effetti digitali le caratteristiche di nuova concezione. Questo processo di prototipizzazione rapida ha richiesto meno di una settimana. Quando il cliente ha visto il video si è messo a ridere: «L’ultima volta che abbiamo fatto una cosa del genere – ha raccontato – abbiamo costruito una vettura prototipo, il che ha richiesto quasi un anno e oltre un milione di dollari. E poi l’abbiamo filmata. Voi avete saltato l’auto e siete passati direttamente al video».

Il nostro mantra recita: «Non preparatevi, cominciate!». Il primo passo vi sembrerà molto meno impegnativo se lo fate piccolo e se vi obbligate a farlo immediatamente. Anziché aspettare e lasciar montare l’ansia, cominciate ad avvicinarvi di un centimetro al serpente.

Paura di perdere il controllo

Fiducia non significa soltanto credere che le proprie idee siano valide. Significa avere l’umiltà di lasciare quelle che non funzionano per accettare quelle di altri. Ma abbandonare lo status quo e lavorare in maniera collaborativa vuol dire sacrificare il controllo sul prodotto, sul team e sul business. Tuttavia il guadagno creativo può più che compensare il rischio. Anche qui si può cominciare con poco. Se vi trovate di fronte a una sfida impegnativa provate a convocare persone che non conoscono nulla della questione. Oppure spezzate la routine della riunione settimanale incaricando la persona più junior di stabilire l’ordine del giorno e di presiederla. Ricercate occasioni per diminuire il controllo e valorizzare punti di vista diversi.

Esattamente quello che ha fatto nel 2007 Bonny Simi, direttrice della pianificazione aeroportuale alla JetBlue Airlines, dopo che una tempesta di ghiaccio aveva bloccato per sei ore lo scalo internazionale JFK di New York e sconvolto i voli della compagnia per i sei giorni successivi. Tutti sapevano che c’erano problemi operativi da risolvere ma nessuno sapeva esattamente che cosa fare. Forte del corso d.school concluso da poco, Bonny suggerì di effettuare un brainstorming a partire dal basso anziché dall’alto. Per prima cosa riunì per un solo giorno un team di 120 operatori di prima linea – piloti, assistenti di volo, addetti allo scalo, agenti di rampa, responsabili della turnazione degli equipaggi e altre figure dello staff JetBlue. Creò poi una mappa delle loro proposte per risolvere la crisi (con Post-it gialli) e delle difficoltà che dovevano affrontare abitualmente(con Post-it rosa). A fine giornata la task force aveva tracciato una nuova analisi e raggiunto una più forte determinazione. Nei mesi successivi la squadra allargata lavorò a oltre mille Post-it rosa per risolvere creativamente i problemi. Ammettendo che le risposte potevano venire solo dalla collettività della base, Bonny ha ottenuto più di quanto avrebbe mai potuto fare da sola. E ora JetBlue recupera dopo gli eventi avversi molto più rapidamente che in passato.

Un altro caso pertinente riguarda proprio noi e la piattaforma open per l’innovazione OpenIDEO. Lanciarla ha comportato due generi di preoccupazioni: in primo luogo stavamo avviando un dibattito pubblico che poteva sfuggirci velocemente di mano; secondo, ammettevamo di non avere le risposte. Ma, come i fobici di Bandura, eravamo pronti a fare il passo decisivo, a toccare il serpente. E ne scoprimmo presto i vantaggi. Oggi la comunità OpenIDEO conta oltre 30.000 membri in 170 Paesi, persone che forse non si incontreranno mai faccia a faccia ma che hanno già fatto la differenza in dozzine di casi, dal sostegno alle città in declino economico alla prototipizzazione di servizi ecografici per le gestanti colombiane. Abbiamo imparato che, a prescindere dal gruppo cui appartieni e da dove lavori, ci sono sempre più idee fuori che dentro.

PERSONE di formazione diversa come Akshay, Ankit, John e Bonny potevano rimanere bloccate sulla via dell’innovazione da paure come quella dell’ignoto inquietante, del giudizio, del primo passo e della perdita di controllo. Hanno invece lavorato per superarle, riscoperto la fiducia nella propria creatività e fatto la differenza. Come ha detto una volta il saggista ungherese György Konrád: «Il coraggio è soltanto una serie di piccoli passi». Non rimaniamo al palo, gettiamoci i timori alle spalle e cominciamo oggi stesso a fare esercizio di fiducia nella nostra creatività.

 
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