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Insegnare la “CASSA”, superare i preconcetti di una cultura basata sul patrimonio

di Ivan Fogliata*  |  Mercoledì, 26 Ottobre 2016

Lo studio della cassa o, per gli anglofili, dei “cash flow” si distingue per una caratteristica del tutto peculiare: appare come un salto quantico verso il futuro sebbene in realtà sia un meraviglioso ritorno al passato.

La contabilità moderna, la partita doppia per intenderci, è nata nei conventi (la mente va al celeberrimo Fra’ Luca Pacioli) per superare un grosso limite: si registravano solo movimenti di entrata e di uscita di denaro ma non si aveva contezza di situazioni debitorie (il fornitore “dee avere”) o creditorie (il cliente “dee dare”). L’introduzione di tale metodo, nonché poi del sistema del reddito e del patrimonio, ci ha portati al moderno impianto contabile di redazione dei bilanci. 

A ben rifletterci, quindi, in origine la contabilità era rappresentata dal mero sistema di rilevazione della cassa. Il “flusso di cassa del convento” era l’unico oggetto di analisi. Il paradosso è che la necessaria evoluzione dei sistemi contabili ci ha portato a focalizzarci su reddito e patrimonio perdendo del tutto la dimensione finanziaria del flusso di cassa!

La focalizzazione sul patrimonio ha portato anche a confondere il concetto di ricchezza con il concetto di consistenza patrimoniale. Tale cultura, che caratterizza il nostro mondo “latino”, nel mondo anglosassone è completamente sostituita dalla cultura che vede “la ricchezza” nella disponibilità di un “oggetto” (l’impresa) in grado di generare copiosi flussi di cassa.

Alla dura realtà che il patrimonio non è ricchezza ci ha condotti la recente crisi che ha crudamente dimostrato come enormi patrimoni immobiliari senza un utilizzo (quindi senza che siano in grado di creare un loro “cash flow”) non valgano nulla, nemmeno a seguito di più sessioni di pubblico incanto.

Affascinati dai motti quali “Cash is King” o “Volume is vanity, profit is sanity but cash is reality” scopriamo come lo studio della capacità di generare cassa sia divenuto “conditio sine qua non” per condurre una compiuta analisi di bilancio. I discenti si mostrano estremante curiosi ad aprirsi al mondo dei flussi di cassa ma tuttavia il legame col concetto di patrimonio appare quanto mai “morboso” ed estremamente arduo da scalzare soprattutto quando viene spiegato che secondo i metodi anglosassoni il valore di un’azienda è solamente rappresentato dall’attualizzazione dei suoi flussi di cassa (il famoso metodo del “Discounted Cash Flow o DCF”); non contano i valori patrimoniali quali le immobilizzazioni materiali o i crediti.

Tale riluttanza è più che comprensibile in un contesto, come quello italiano, che non aveva mai conosciuto il fenomeno della svalutazione degli immobili o di altri attivi. Ciò che si osserva è che attraverso il ricorso a esemplificazioni ed evidenze empiriche in merito all’importanza della cassa i discenti progressivamente sciolgono i loro preconcetti per sposare completamente la logica del “cash flow”. Determinante si rivela, fra gli altri, il ricorso a esempi di contratti di finanziamento bancario contenenti i cosiddetti “covenant” ovvero quelle clausole pattizie che impongono il rispetto di specifiche condizioni per il mantenimento del finanziamento. Uno dei “covenant” più diffusi, il “debt service coverage ratio” (DSCR), prevede proprio che si debba verificare un costante equilibrio finanziario fra la produzione di flussi di cassa operativi e il flusso di cassa per il servizio del debito. L’esempio diviene ancor più convincente quando si sottopongono ai discenti le lettere di revoca del finanziamento derivanti dal mancato rispetto dell’equilibrio di flussi di cassa imposto dal DSCR.

Ciò dimostra, anche con la cassa, che per superare i preconcetti un esempio vale più di mille parole.

*Ivan Fogliata è analista finanziario e CEO di inFinance, società di formazione e consulenza, www.infinance.it. È coautore, con Michele Giorni, del libro “Il profitto è un’opinione. La cassa è un fatto”, appena pubblicato da Mind Edizioni.

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