L’affermarsi delle migliori pratiche nella corporate governance viene ostacolato, scrive l’autore, da una normativa “patchwork”, risultato di un mix di politiche pubbliche e private, e dall’assenza di metriche condivise che permettano di definire in che cosa consiste il successo. L’alternativa che propone è denominata Corporate Governance 2.0: non si tratta infatti di una ridefinizione ex novo ma piuttosto di una revisione del concetto basata su un ritorno ai fondamentali e costruita attorno a tre concetti chiave:
I board dovrebbero avere il diritto di gestire l’azienda in una prospettiva di lungo periodo, il che significa fine della earnings guidance (le stime dei futuri utili per azione), modifica del concetto di staggered board (rinnovo a scaglioni del CdA) ed exclusive forum provisions (disposizioni sulla competenza esclusiva di un foro).
I board dovrebbero istituzionalizzare dei meccanismi per garantire la presenza al proprio interno delle migliori persone possibili. Questo richiede valutazioni significative dei membri e apertura alla nomina dei candidati da parte degli azionisti (shareholder proxy access).
I board dovrebbero accordare agli azionisti una modalità regolamentata per far sentire la loro voce. Anziché difendere i bastioni corporate a ogni costo, i director dovrebbero garantire un processo ragionevole tramite il quale gli azionisti possano diventare protagonisti delle decisioni.