Perché proporre oggi un saggio sulla “rivoluzione della stampa 3D” (Richard D’Aveni) quando ormai se ne parla e se ne scrive ovunque, si vedono servizi in tutte le televisioni e se ne riportano realizzazioni e avanzamenti in ogni sito internet (uno degli ultimi, la zampa artificiale ricostruita con stampante 3D per una simpatica oca zoppa del Sud Africa)? Interrogato in materia di stampa 3D l’amministratore delegato di Dallara Automobili, Andrea Pontremoli, ha ricordato che in effetti sono ormai parecchi anni che si è iniziato a stampare oggetti con questa tecnologia (e in quell’azienda se ne fanno di sofisticatissimi e ipercomplessi). Ha anche indicato il punto cruciale: si è da non molto superata la fase delle sperimentazioni e dei prototipi e si è scatenata la nuova fase della produzione manifatturiera additiva, ovunque nel mondo. E Bruno Lamborghini, nel commentare l’articolo di D’Aveni, scrive che sta cambiando il paradigma di fabbricazione in un numero crescente di settori.
D’Aveni indica alcuni numeri significativi. Nel 2014 è stata compiuta un’indagine su un campione di oltre cento aziende industriali di primo piano e l’11% di esse è già passata alla produzione seriale di componenti e prodotti stampati. Secondo Gartner una tecnologia è di uso comune quando raggiunge un livello di adozione del 20%, e a questi ritmi ci vorrà poco. Un Ceo dell’industria americana dei supporti per non udenti riferisce che il settore si è convertito alla produzione additiva al 100% in pochi mesi, e chi non lo ha fatto non è sopravissuto.
I vantaggi della produzione additiva sono infatti colossali. La stampa 3D aggiunge strati di materiali per fabbricare un oggetto su una base progettata da un software, dunque non sottrae a materiali che devono essere lavorati con grandi sprechi, ma li evita. Per definizione, consente la customizzazione più spinta in termini di forme, dimensioni, colori. Pezzi che finora richiedono complessi montaggi possono essere costruiti in maniera integrata (un esempio semplice è quello degli occhiali, uno complesso è la scatola del cambio). La scala produttiva arriva all’individuale e consente idealmente a ogni singola persona che voglia installare una stampante 3D di diventare un fabbricante: infatti, i Fab Lab (Fabrication Laboratory) stanno sorgendo ovunque come funghi. Per Jeremy Rifkin, è iniziata la vera epoca del prosumer, il consumatore che diviene produttore per sé e per altri, e non si torna indietro (si veda il suo ultimo libro di estremo interesse malgrado il titolo assai poco sexy La società a costo marginale zero, Mondadori 2014).
I singoli saranno importantissimi in futuro, ma per ora conviene concentrare l’attenzione sui big: usano la stampa 3D aziende come GE, per motori aerei, apparecchi medicali e componenti per elettrodomestici; Lockheed Martin, Boeing e Aurora Flight Sciences per l’aerospaziale; Google per i servizi informatici; Invisalign per apparecchiature dentali; LUXeXcel per fare i Led; ma in diversi Paesi si stanno progettando, e già costruendo, macro-componenti di case per abitazione, o fusoliere intere di aeroplani; in Italia tra i più noti utilizzatori ci sono Ducati, Avio e la già citata Dallara, circondati da una nuvola in espansione di dinamici Fab Lab, di norma start-up di giovani con pochi mezzi e tantissime idee.
Il già citato Rifkin propone in modo visionario un futuro in cui si produrrà appunto a “costo marginale zero”: una volta assorbiti i costi fissi d’investimento, ogni successivo pezzo viene prodotto a costo quasi nullo, con implicazioni immense per la stessa sopravvivenza del capitalismo così come lo conosciamo. A suo modo di vedere, siamo nel pieno della terza rivoluzione industriale che sarà connotata dalla crescita esponenziale dell’Internet delle cose e dall’avvento di un sistema di energie rinnovabili a basso costo, spesso autoprodotta.
Tutto questo, assieme all’esplosione nell’adozione di robot ovunque nel mondo, avrà implicazioni profonde (e negative) sull’occupazione, al punto che teorizza la “fine del lavoratore”.
Ma di questo ci occuperemo un’altra volta.