CHE L’ECONOMIA DEL NORD ITALIA sia stata contaminata dalla fenomenologia mafiosa non è certo una novità. Da anni il palazzo di giustizia di Milano grida verità scomode su una nuova ‘ndrangheta che vive in osmosi con l’élite politica ed economica delle regioni del Nord. In pratica la nuova mafia – se poi di nuova e vecchia mafia si può parlare – si presenta in giacca e cravatta, aggredendo le aziende sane tramite sistemi in apparenza legali e in forza dell’enorme capitale illecito di cui dispone. L’intercapedine tra lo spazio dell’azione legale e quello illegale si è dunque allargato, con la conseguente diffusione di comportamenti, atteggiamenti e azioni che – anche qualora non rientrino propriamente in ciò che viene definito malaffare – rimangono comunque ai bordi della liceità. È questo l’humus che garantisce l’entrata delle mafie nell’economia.
Da quanto emerge da una ricerca condotta da Fondazione Istud e dal Centro F. Stella dell’Università Cat- tolica e promossa da Assolombarda, Aldai e Fondirigenti, all’interno di un’azienda tutte le aree che con- corrono alla generazione di valore possono essere potenzialmente aggredite dalla componente mafiosa, in primis gli acquisti, il commerciale e la finanza. L’analisi di un panel selezionato di inchieste giudiziarie e di 426 questionari e 30 interviste rivela che il processo di contaminazione criminale dell’economia legale viene facilitato da una convergenza tra la logica mafiosa e la logica del profitto a ogni costo.
La mafia spesso si inserisce nei mercati mediante un’impresa di facciata che le permette di interagire da pari con imprenditori e manager i quali, pur avendo sentore della reale natura dei propri interlocutori, vi entrano deliberatamente in affari. L’interazione tra imprenditore e mafioso non è più riassumibile in- somma in una relazione dicotomica tra vittima e complice. Si assiste piuttosto a un processo dinamico durante il quale ai momenti di sottomissione si alternano fasi di collusione e collaborazione. Come ebbe a dire il noto scrittore Primo Levi, da sempre la mafia lega a sé le proprie vittime caricandole di colpe e compromettendole quanto più possibile, per far contrarre coi loro mandanti il vincolo della correità e non permettergli più di tornare indietro (Levi, I sommersi e i salvati, p. 30). Alla fine di questa interazione complessa si assiste infatti allo svilimento del ruolo dell’imprenditore, solitamente estromesso dalla propria azienda.
Secondo quanto emerso dalla ricerca, il rischio da parte degli imprenditori di esporsi alla contamina- zione di cellule criminali è legato alla necessità di operare in tempi di crisi (il 26% delle scelte) e alla volontà di guadagnare di più (20%) e di battere i concorrenti (20%). Dunque, in sintesi, mafia come partner; mafia come ragione di business.
A questo si aggiunga una conoscenza approssimativa del fenomeno: la generale impreparazione e la mancanza di informazioni complete da parte degli odierni attori economici viene ammessa dalla stessa metà del campione interrogato (53%). L’unico chiaro segnale di allarme della presenza mafiosa nell’eco- nomia viene connesso alla percezione della corruzione dilagante (32%).
Di fronte a questo scenario, gli imprenditori e i manager reclamano dalle istituzioni e dalle forze dell’or- dine maggiore controllo e difesa sociale, nonché l’incentivazione di reti di supporto e regolamentazione inter-organizzative, fino anche all’applicazione di sanzioni per le imprese non compliant e, invece, di premialità per le imprese compliant (D.Lgs 231/2001).
In tutto questo rimane centrale il tema della responsabilità individuale dell’imprenditore. È lui, difatti, chiamato a scegliere da che ‘parte’ intende stare. Il peso della decisione personale dà contezza dell’im- portanza di far radicare una coscienza civica antimafiosa, la quale deve necessariamente fondarsi sui fatti testimoniati dalle sentenze, e non su stereotipi o, peggio, su rappresentazioni sensazionalistiche che promuovono un immaginario mafioso lontano dalla realtà quotidiana. Necessita invece sviluppare conoscenza e coscienza critica che aiuti a svelare e tradurre il linguaggio e le azioni che occultano l’ope- rare delle cellule mafiose.
In tal senso, questa ricerca e i suoi enti promotori vedono la formazione e l’informazione tra i principali strumenti di contrasto e di prevenzione. Il tema stenta ancora a uscire dalle aule giudiziarie e a essere trattato nelle aule di formazione manageriale sulla gestione di impresa. Invece, come chiedono anche i manager e gli imprenditori intervistati, la valutazione e la prevenzione dei rischi di infiltrazione mafiosa deve oggi diventare materia di attenzione per chi si preoccupa di formare la classe dirigente e per chi intende difendere i principi della libera concorrenza nel proprio operato. Università, business school e associazioni di categoria hanno in questo una grande responsabilità.