Forse è l’accostamento tra le parole “design” e “thinking” a produrre un significato di per sé un po’ misterioso. Forse sono gli stessi guru della disciplina che inconsciamente danno a questo strumento un’aura d’inaccessibilità. Sta di fatto che quando si parla di “design thinking” si ha spesso la sensazione che questo metodo, molto pratico e utile in un’infinità di situazioni reali, sia qualcosa che possa essere guidato e realizzato da gruppi ben definiti di esperti (percepiti quasi come “sacerdoti”), che lavorano in autonomia senza la necessità di condividere il lavoro con i “non addetti”. Succede così che gli “esclusi”, ossia tutte le altre persone: quelle che vengono semplicemente consultate, per poi essere coinvolte solo a valle del processo, ossia nella fase di attuazione del design thinking, pur subendone comunque le conseguenze vivano l’esperienza in modo passivo, frenandone più o meno consciamente l’attuazione.
Che il risultato auspicato del design thinking sia una soluzione organizzativa post M&A o un servizio finanziario innovativo, un modo per portare aiuto alle popolazioni in crisi o un nuovo modello di aereo, quello che conta veramente è che l’outcome sia accettato, attuato e condiviso da tutti gli stakeholder. Perché ciò avvenga, è indispensabile che – sin dalle prime fasi del percorso – i designer investano nel costruire un percorso collaborativo, attraverso workshop (o Design Forum) che mettano insieme, possibilmente davanti a una lavagna, chi decide, chi sa e chi attua. Utilizzare il design thinking come motore di cambiamento “con-” oltre che “per-” le persone, è il modo più efficace ed efficiente per creare valore.
Lavorando con Airbus sulla semplificazione della funzione engineering, abbiamo scoperto al suo interno un team di design thinker che, nonostante la loro indiscussa competenza, avevano difficoltà a operare per assenza di un linguaggio comune col quale dialogare con i 18.000 ingegneri dell’azienda. Ciò bloccava il processo di innovazione in azienda. Per superare questo problema, nel 2014 abbiamo riunito 120 ingegneri senior in un workshop, per applicare il design thinking alle interazioni interfunzionali dell’Engineering Department. Da allora, un piccolo team composto da facilitatori esterni e personale interno ha supportato nel quotidiano i project team di ingegneri nella traduzione delle strategie in progetti e iniziative concrete.
Generalmente i Design Forum sono eventi di 2-3 giorni che coinvolgono gruppi molto grandi ed eterogenei, non solo nella attività di progettazione dei prodotti e soluzioni, ma anche nella definizione del problem statement, che è il primo passo di qualunque processo di design thinking. Un altro caso emblematico è quello di Unicef – Supply Division, che ha avuto bisogno di assistenza nella progettazione di una nuova sedia a rotelle da distribuire ai bambini nel caso di catastrofi o conflitti armati. Senza coinvolgere direttamente nella progettazione i vari stakeholder (fornitori, disabili, associazioni, ecc.) il team Unicef di design thinker rischiava di perdere tempo e risorse nel discutere gli elementi tecnici dello strumento. Solo coinvolgendo nella discussione, e non semplicemente consultando, gli stakeholder, è emerso chiaramente che ciò che andava innovato non era la sedia a rotelle di per sé, ma tutto il sistema logistico e di servizi ad essa connesso.
Evitare l’effetto “torre d’avorio” coinvolgendo gruppi grandi ed eterogenei è stata la strada di FCA-Fiat interessata a reindirizzare una fabbrica e il relativo personale verso la produzione di una vettura di alta gamma. Insieme a Methodos, siamo stati incaricati di allargare il team dei progettisti, coinvolgendo in un workshop circa 200 team leader della linea. Anche in questo caso, un design thinking limitato agli “eletti” avrebbe avuto molto minore impatto.
In definitiva l’approccio etnografico, quello che viene tipicamente suggerito per conoscere meglio un problema e le persone che lo vivono, non è sufficiente: occorre portare dentro il processo di design tutti coloro che ne determineranno il successo. Solo così, abbattendo definitivamente il muro che divide chi osserva da chi è osservato, mettendo insieme i “sacerdoti” con i “fedeli”, si evita la perita di informazioni importanti e si può generare la giusta motivazione per un processo collaborativo di successo. Del resto, come ci ha ricordato un partecipante al Design Forum di Unicef: “E' più facile insegnare a un non vedente come programmare un software, che far capire a un programmatore le esigenze di chi non vede”.
Dan Newman, Founder e Ceo di Matter Group; Carlo Alberto Pratesi, Università Roma Tre.