Confusione, quanta confusione. Magari regnasse. Invece disorienta, spaventa. I consumi, gli investimenti, le scelte professionali. Si incrinano anche i fondamentali presupposti per avere un lavoro: forte calo dei laureati e delle iscrizioni all'università. Crollo del mito della laurea "d'obbligo", quale passaporto professionale: figli tendenzialmente meno acculturati dei genitori.
Sciolto il cerone di facciata, si è sbriciolato il rapporto di fiducia con le banche. Meglio i Buoni, al limite anche infruttiferi, delle Poste, purché il soldo sia protetto e disponibile. D'altra parte non si chiedeva di erogare interessi al porcellino di creta.
Si cerca di rianimare un’esausta economia con una flebo di stimoli finanziari, ma si fatica a trovare la vena del ricircolo virtuoso. Rischio colesterolo per accumuli di denaro improduttivi. Si vuole combattere il sommerso con reti dalle maglie sempre più strette, che portano a galla solo pesciolini guizzanti. Fritto di paranza, che non sazia. Ci vorrebbero bombe di profondità per colpire i pesci grossi, che stanno sui fondali dei mari caraibici, paradisi proibiti alle cacciatorpediniere.
Abbonda di tutto, materie prime, oro, acciaio, petrolio, denaro. Ma manca lei e la caccia è disperata. Incapaci di generarla, la si vorrebbe importare, ma non quella malsana di certi Paesi. Però non la si trova. Per anni combattuta come morbo dell'economia, oggi è invocata quale toccasana: l'inflazione. Ma che confusione.
Stordimento, incertezza che condiziona pesantemente anche la classe dirigenziale. Una paludosa melma che avvolge, frena, assopisce. Le rare aziende che cercano manager lo fanno al rallentatore. Incontrano, vedono, intervistano candidati ma poi non scelgono, non decidono. Aspettano. Che cosa, non si sa. E così i manager che hanno un posto di lavoro se lo tengono stretto, esitano a cambiare, hanno paura. Gli uni chiedono il periodo di prova, gli altri lo evitano come la peste. Più flessibili i senza lavoro. Talvolta anche troppo. Il che può insospettire il futuro datore di lavoro. Processi di selezione interminabili. Ci si giustifica dicendo che tutto è cambiato, percependo questa discontinuità sostanzialmente come una criticità, senza valutarne le possibili opportunità.
È soprattutto vero per chi opera sui mercati internazionali, che il mondo del business è diventato spietato, che solo chi eccelle ha possibilità di sopravvivere e di crescere. E ciò richiede una grande attenzione nell’allocazione delle risorse. Non c’è più tempo per investire nel rilancio di attività che non vanno bene. Tutti gli sforzi vanno concentrati sui settori nei quali si è già forti, per diventarlo ancora di più. Con tenacia e rigore. E questo vale anche per le risorse umane. Con un approccio selettivo, che potrebbe apparire duro, di fatto essendolo, ma che non ha alternative.
Caparbiamente ci si continua a confrontare con il 2008, perché in realtà si vorrebbe tornare indietro, senza comprendere che quel mondo non esiste più e che è ora di prendere il 2009 come l'anno zero di un nuovo ciclo.
Ma che terribile responsabilità hanno i capi azienda. Paradossalmente ora, sono facilmente disponibili tutte le informazioni per fare del buon business. Non si può più dire: non sapevo. Ma piuttosto bisogna avere il coraggio di dire: non ho capito. Non ho saputo vedere avanti, non ho usato gli occhi degli altri, in quanto i miei sono offuscati, perché troppo influenzati dal passato.
Si parla di bisogno di cambiare e nelle aziende proliferano progetti di change management, che incidono sulla cultura aziendale e che richiedono sforzi enormi per essere portati avanti. A testimonianza che per troppo tempo non si era fatto molto in tale direzione. Quello che avrebbe dovuto essere un processo continuo di evoluzione della struttura e dell'organizzazione diventa ora un progetto del nuovo CEO, che rincorre il tempo perduto.
L'azzerare il passato, il sapere che il "si è sempre fatto così" non hanno più senso, tolgono non solo i punti di riferimento, ma anche il fiato. E sono tanti i manager in affanno. I più giovani, che chiedono consiglio, si sentono rispondere con un laconico "segui la tua strada". Peccato che manchi la meta da mettere nel navigatore. I manager più esperienziati si rivolgono agli head hunters i quali, come maestri acconciatori, consigliano di rivedere il CV: accorciando, sfoltendo, dando qualche pennellata di colore, rinforzando, facendo attenzione alle sfumature.
Eh sì, anche il vecchio e tanto amato curriculum si rinnova. Non è più la cronologica enumerazione di tappe di carriera collegate da un'ipotenusa. Ora deve essere una storia, un racconto che spiega anche il perché di spostamenti orizzontali, di pause di carriera, di discontinuità impreviste. Particolarmente apprezzati quelli che testimoniano tenacia, solidità nei momenti difficili, voglia di ripartire e di impegnarsi. In una parola: resilienza. Ed è tutto lì, riportato su quel foglio di carta più volte cliccato, un passato che non si può più riscrivere, fatto di scelte volute o no. Un indelebile tatuaggio. Si dice che al di là del CV conti la persona. È altrettanto vero il contrario.
Oggi il mercato è duro: le aziende vogliono comperare competenze, chiare e solide. Di settore, di funzione, di ruolo. Vere capacità di saper fare. L'assunzione è vista come un investimento, il cui rischio deve essere minimizzato. Tutto è mirato, lasciando meno spazio ai profili atipici, creativi.
Il CV quale lasciapassare per uscire dalla posizione, e accedere ad altre opportunità, le più ampie possibili. È così, invece, che lo vorrebbero i manager. Pronti in virtù di capacità manageriali e di leadership auto-valutate a ricoprire gli incarichi più disparati. Incoraggiati, in tal senso, dagli esempi di ex McKinsey, particolarmente apprezzati nei contesti di sviluppo. Di procteriani, richiesti in quanto provenienti da una delle poche aziende formative. Di GE, marchio blasonato che nobilita il pedigree. Per non parlare più in generale di CFO, ai quali, negli anni più bui della recessione, sono stati affidati importanti incarichi di vertice per rasserenare i sonni dei banchieri. Trasversalità, orizzontalità comunque limitate dalla cultura del nostro Paese. E che lo saranno ancora di più, vista la tendenza in atto.
È cominciato tutto con un tremolio, piccole scosse di assestamento, sottili crepe, lunghe, frastagliate, inizialmente non preoccupanti. Poi la faglia si è aperta, sempre più profonda, larga, invalicabile. Ha letteralmente diviso in due la classe manageriale: quelli che lavorano per aziende presenti unicamente sul mercato nazionale e quelli che operano su mercati internazionali. Parliamo di realtà con dinamiche, velocità, regole del gioco, culture, approcci, concorrenti, tassi di crescita, reattività, aperture mentali, criticità, complessità totalmente diverse. Due mondi che richiedono e sviluppano competenze manageriali scarsamente compatibili tra loro. Due mondi che faranno sempre più fatica a parlarsi tra di loro. Fondamentale per i giovani, sapere che meta mettere nel navigatore: Italia, o resto del mondo.
Manager formati su realtà locali che si troverebbero in grande difficoltà in contesti internazionali, e manager abituati a lavorare all’estero che non sono più disponibili a vedere il proprio raggio di azione limitato al mercato nazionale. Parliamo di orizzontalità impedite. Fortemente dannose per il nostro Paese che rischia di soffrire, negli anni a venire, di un fosforescente impoverimento manageriale. Contrastabile, attirando manager validi nelle aziende partecipate, offrendo loro dei pacchetti retributivi competitivi o, nelle aziende a controllo famigliare, garantendo una corporate governance chiara.
Paese che a partire dalla crisi del ’92 ha abdicato a ricoprire un ruolo di "potenza" industriale, riducendo progressivamente gli investimenti in tale ambito. E dalla quinta posizione, ora fatica a restare tra le prime dieci. Paese che nel contesto attuale, è riconosciuto e rispettato a livello internazionale soprattutto come brand trasversale su settori quali l’abbigliamento, l’alimentare, l’arredamento: con prodotti ricercati in tutto il mondo, apprezzati per i loro contenuti di qualità, stile, innovazione, gusto.
È dal rinascimento che le nostre mani creano valore: “potenza” del Made in Italy. E qui si sente profumo di podio.
Massimo Milletti è Presidente di Eric Salmon & Partners.