È un’esperienza piuttosto comune, quando si lavora in una grande organizzazione, passare attraverso diverse fasi di ristrutturazione, attuate spesso con grande dispendio di risorse ed energie, e ancora più spesso vissute con grande frustrazione dai dipendenti, a partire dai manager stessi. Perché si ristruttura? Si tratta di norma di una risposta a una situazione di difficoltà, rispetto alla quale si verifica una reazione quasi automatica che porta a individuare il problema di base nell’organizzazione dell’azienda, nella scala dei riporti e nell’attribuzione delle responsabilità. Questa, sostengono Neilson, Martin e Powers nel loro articolo che apre questo numero, è una risposta solo apparentemente sensata: nei fatti, le ricerche dimostrano che, per quanto necessario, agire sulla struttura non è né la prima cosa da fare, né la più importante. La priorità andrebbe invece data al miglioramento e chiarimento dei processi decisionali, alla circolazione delle informazioni e solo successivamente ai fattori motivazionali e alle questioni di struttura. Si può essere d’accordo o meno, poiché è difficile stabilire quali priorità assegnare a fattori che, palesemente, interagiscono in vari modi e intensità in ciascuna organizzazione. Ma gli autori invitano le aziende a guardare con occhi nuovi all’esecuzione delle loro strategie, proponendo anche un test per valutare la capacità di implementare la propria strategia con successo.
In questo numero di «Harvard Business Review Italia» vi proponiamo un altro articolo che offre una visione fuori dagli schemi. È quello di Tekeuchi, Osono e Shimizu, che individuano nella capacità di vivere in modo positivo le proprie contraddizioni il vero fattore di successo che ha portato la Toyota a essere l’azienda automobilistica numero uno al mondo. Secondo gli autori, il sistema di produzione e di qualità Toyota, reputato il migliore e frequentemente imitato, fornisce la base hard del successo; ma il fattore soft, quello che è molto più difficile da replicare, consiste proprio nella cultura della contraddizione, che la società giapponese ha elevato a forma d’arte.
Tra gli altri articoli, va segnalato quello di Garvin e Levesque, sull’impresa multi-unità, una realtà enormemente diffusa e paradossalmente poco studiata, ma le cui caratteristiche, se ben comprese, possono aiutare anche nel caso di imprese complesse di altra natura, quali l’azienda multi-divisionale. Il contributo di Strack, Baier e Fahlander riprende, invece, il tema estremamente attuale del rischio demografico, ossia il progressivo invecchiamento della popolazione, anche manageriale, non sufficientemente compensato dall’avvento delle nuove leve di lavoro. Ciò pone, secondo gli autori, un grave problema per le aziende che di questo rischio non si avvedono e che non predispongono per tempo delle soluzioni adatte a garantirsi successione e talenti.
In parte connesso con quest’ultimo articolo è il saggio di Gnoato e Roveda, che analizzano le politiche di knowledge management delle aziende italiane attraverso una ricerca sul campo, e concludono che di norma manca la consapevolezza dell’importanza del mantenimento delle conoscenze, con possibili conseguenze negative sulla performance aziendale. Per Graham Jones, di professione psicologo sportivo, i manager delle imprese dovrebbero ispirarsi ai grandi campioni dello sport per scoprire la strada che porta a migliorare continuamente se stessi e raggiungere grandi risultati.
Infine, di grande interesse gli articoli di Vikram Akula, un nuovo protagonista del mondo del micro-credito; di Henkel e Reitzig, sui rischi che le aziende più avanzate sotto il profilo tecnologico corrono a causa degli «squali di brevetti»; e di Tim Brown, che propone una visione nuova e strategica di un approccio innovativo basato sul design. Menzione speciale, come sempre, per gli autori degli ottimi commenti agli articoli citati, che in questo numero sono Maurizio Sella, Franco Perone, Federico Butera, Lamberto Biscarini, Giorgio Squinzi, Luciano Daffarra e Roberto Verganti.
Buona lettura!