Il leitmotiv sull'importanza del capitale umano è diventato ormai una melodia un po' stantia. Difficile contestare, intendiamoci. Ma è un po' come quelle vecchie canzoni di successo, splendide eppure sentite ormai così tante volte da risultare un pochino noiose. E poi il mondo avanza, e mette alla prova anche le convinzioni più radicate. Da almeno 15 anni mi sono convinto che il più critico fattore in gioco nell'economia moderna non sia il capitale umano, bensì quello organizzativo, che chiamo anche Intelligenza Collettiva Produttiva. I discorsi sul capitale umano mascherano e relegano in secondo piano quelli intorno a fattori di produzione molto più determinanti, come le proprietà intellettuali, i sistemi informativi, gli accordi di partenariato, i modelli organizzativi, la collaborazione. E questi non sono vani discorsi sui Massimi Sistemi. L'impatto sulla realtà aziendale hic et nunc è evidente: meglio investire sulle persone o su quegli altri fattori? Io avrei pochi dubbi, salvo casi eccezionali sempre possibili. Uno studio appena pubblicato, condotto in collaborazione tra il Media Lab del MIT e il Center for International Development di Harvard, porta altra acqua al mio mulino e, quel che più conta, prezioso materiale di discussione.
Secondo Hausmann, Hidalgo et. al., l'esponenziale sviluppo economico dell'ultimo secolo è soprattutto il prodotto dell'intelligenza collettiva: «le società occidentali posseggono grande diversità di know-how e sanno ricombinarla per creare una sempre maggiore varietà di prodotti migliori e più intelligenti». Moltissimi dei prodotti oggi in circolazione richiedono, per essere fabbricati, molte più competenze di quanto qualsiasi singola persona potrà mai possedere. Steve Jobs non avrebbe saputo costruire l'iPhone nel garage con Wozniak. Per fare un'automobile occorre fondere competenze di meccanica, elettronica, informatica, fluidodinamica, design, gestione aziendale. I prodotti finanziari più complessi richiedono, end-to-end, matematica, economia, vendite, organizzazione, relazioni. E' questa la ragione per cui, nei paesi ricchi, si lavora in aziende più grandi e più "connesse" di quanto non accada nei paesi poveri. E anche la ragione per cui la presenza di una troppo elevata percentuale di microimprese viene considerata un limite allo sviluppo (cfr. OCSE, "Science, Technology and Industry Scoreboard 2011", pag. 80). Gli skill individuali, infatti, non sono sufficienti per competere nell'economia moderna.
E non sono neppure il fattore-chiave. Perché essi diventino socialmente produttivi, occorre «riassemblare questi pezzetti dispersi per mezzo di squadre, organizzazioni e mercati». Le relazioni e le interazioni tra gli individui contano molto di più che non le personali attitudini, che, se lasciate isolate, non producono granché di economicamente utile. I pezzetti però, ossia le competenze atomiche, sono costituiti da molta conoscenza tacita, implicita, prodotto più dell'esperienza che non della formazione. Essa non è formalizzata e codificata: dunque, è difficile individuarla, trasmetterla e riassemblarla su vasta scala. Le economie più competitive sanno fare bene proprio questo. E credo che lo stesso valga a livello microeconomico, ossia per le imprese. Lo sviluppo economico è un processo di apprendimento sociale, non individuale.
Gli strumenti più potenti, dunque, sono quelli del capitale organizzativo: software applicativo, processi, brevetti, formule, schemi industriali, open innovation, collaborazione interimpresa, accordi di partnership, distribuzione e franchising. E' pur vero che in definitiva sono le persone a predisporre questi asset, ma è importante comprendere che essi svolgono un lavoro autonomo e hanno un valore indipendente dalle persone che hanno contribuito a crearli. Tant'è che, non di rado, possono essere acquisiti presso terzi.