Manager nel mirino

  • di Enrico Sassoon


  • Economia e Società


FACENDOSI PORTATRICE DI PREOCCUPAZIONI DIFFUSE SU SCALA MONDIALE, la Harvard Business Review torna a osservare e criticare i punti dolenti dell’attuale fase del capitalismo di mercato. Lo aveva fatto in giugno, con i saggi di Christensen e Mukunda, che avevano indicato i rischi insiti in una eccessiva concentrazione dei manager (special- mente americani) su innovazioni fortemente orientate al breve termine e in processi di decision making troppo osse- quiosi verso le aspettative dei mercati – e degli operatori – finanziari. Lo fa di nuovo in questo numero, con due articoli (di Martin e di Lazonick) che rivolgono l’attenzione a un fenomeno molto vicino a quelli già menzionati. Al centro dell’attenzione ci sono i comportamenti dei più alti manager delle imprese cui si imputa di privilegiare soprat- tutto le strategie di mercato e finanziarie che meglio soddisfano le loro stesse aspettative, colpendo in questo modo le legittime attese degli investitori e dei lavoratori e danneggiando la capacità di espansione dell’economia. Non si tratta di critiche generiche né, tantomeno, benevole. Lazonick per esempio afferma che malgrado le aziende siano tornate al profitto dopo la crisi, ciò non si traduce in prosperità diffusa. E il motivo consiste nel fatto che i più alti manager delle imprese non usano abbastanza gli utili per investire in innovazione e crescita, bensì per effettuare operazioni di riacquisto di azioni dell’azienda al fine di gonfiarne il prezzo e così far crescere il valore della loro retri- buzione su base azionaria. Un dato per tutti: nel 2012 i 500 dirigenti di aziende quotate Usa con le retribuzioni più alte hanno incassato in media oltre 30 milioni di dollari a testa derivanti da stock option per il 42% e da altri strumenti su base azionaria per il 41%. Se questa è la posta in gioco, non stupisce le che 449 società nel paniere S&P abbiano destinato fra il 2003 e il 2012 il 54% degli utili (2400 miliardi di dollari) a buy-back, e un ulteriore 37% a dividendi. In tal modo ben poco è rimasto per investimenti produttivi e aumenti dei salari, che sono infatti diminuiti in termini reali. Non sono affermazioni da poco e non vengono da un think tank da socialismo reale, ma da osservatori della ge- stione d’impresa ben radicati nel sistema. Può far dubitare l’analisi se viene da un critico del sistema capitalista come Thomas Piketty, il cui libro Il capitale nel XXI secolo è oggi un bestseller mondiale e viene da alcuni consi- derato una naturale continuazione de Il capitale di Carlo Marx; e, in effetti, l’autore viene ripreso da Lazonick nel ricordare la crescente diseguaglianza di redditi negli Stati Uniti. Ma meno sospettabile di estremismi più o meno infantili è il CEO di BlackRock quando dice che «troppe aziende hanno tagliato gli investimenti di capitale e accre- sciuto il debito per gonfiare i dividendi e aumentare i buy-back», con ritorni da favola per i dirigenti di più alto livello. Ovviamente, l’implicazione di queste analisi comporta non tanto una critica in sé delle strategie di buy-back o le politiche retributive basate su azioni, quanto sull’uso che se ne sta facendo da un po’ di tempo. E su questo punto entra a piedi pari il saggio di Martin che guarda alla stessa situazione ma sotto l’angolo dei uno dei mantra principali della nostra epoca, ossia l’economia basata sui talenti. Viviamo nell’era della conoscenza ed è un principio indiscusso che oggi i principali fattori competitivi non siano più la dotazione di risorse naturali o il capitale, ma le informazioni e i talenti. Come osa allora costui prendersela con i grandi talenti che guidano, e spesso portano a risultati stratosferici, le imprese? Come Lazonick (che insegna all’Università del Massachusetts), anche Martin (ex preside della Rotman School of Mana- gement dell’Università di Toronto) punta il dito sul mutamento degli equilibri tra detentori di capitale, management e lavoratori intervenuto più o meno dall’inizio degli anni Ottanta, con l’epicentro in America, per un forte spostamento del pensiero economico – la supply-side economics di Mundell e Laffer e la teoria dell’agenzia di Jensen e Meckling - che hanno portato a diminuire enormemente le aliquote fiscali sui redditi più alti e ad allineare i redditi dei manager a quelli degli azionisti a favore dei primi. A ciò si deve aggiungere l’emergere di una categoria di gestori di risorse finanziarie (in primo piano gli hedge funds) poco interessati allo sviluppo e al benessere delle aziende e dei loro dipendenti, ma molto a far crescere i propri guadagni usando spregiudicatamente le leve di mercati finanziari poco regolati. Conseguenza del patto “scellerato” tra gestori finanziari e talenti alla guida delle grandi aziende è che sempre meno utili vanno a premiare il lavoro dipendente e il capitale di rischio, con danni sostanziali per la stabilità finanziaria e la crescita economica. Ambedue gli autori indicano possibili strade per correggere questi acuti difetti del capitalismo contemporaneo e i lettori possono valutarli nel leggerne i contributi, sui quali potranno essere più o meno d’accordo. Il punto centrale è che i manager, almeno ai più alti livelli, e le politiche retributive sono stati messi nel mirino e che occorre ora analizzare le critiche per capirne la reale portata e andare alle soluzioni più adatte. Scartarle a priori o ignorarle tout court non sembra, infatti, né possibile né opportuno.

PARTNER CENTER

 

     

Copyright © Strategiqs Edizioni, Harvard Business School Publishing.