Provo a mettermi nei panni dei lettori di Harvard Business Review che, per il secondo mese di fila, si vedono presentare un numero che propone una particolare attenzione ai fattori emozionali nell'ambito delle aziende e dei rapporti di lavoro. Nel numero scorso si trattava di comprendere in che modo sia possibile ingaggiare il cliente digitale su un piano non strettamente razionale, cercando cioè di innescare una relazione basata su connessioni emotive, visto che a quanto sembra il cliente ha preso in mano l'equilibrio di questo rapporto e non intende lasciarsene defraudare. In questo numero lo Speciale è dedicato al lato soft della negoziazione, dunque una volta ancora agli aspetti emozionali e agli stati emotivi, che si sviluppano però in un tipo di rapporto diverso da quello fra azienda e singolo consumatore. La negoziazione di cui qui si parla riguarda infatti la trattativa per un accordo fra parti, un contratto, ma anche un confronto sindacale o di altra natura.
Perché, ci si può chiedere, tanta insistenza sugli aspetti emotivi nel mondo del lavoro e delle professioni quando per decenni si è praticato uno sforzo di spersonalizzazione, di definizione e rispetto delle regole, di affermazione di norme generalmente valide e accettate che, per quanto aride e fredde, costituiscono tutto sommato altrettante garanzie di un rapporto di correttezza che trascenda l'universo delle emozioni e si costruisca su processi indipendenti e validi erga omnes? La stessa concezione tayloristica del lavoro può essere vista ex-post come il tentativo di mettere democraticamente tutti sullo stesso piano, frammentando il lavoro a dimensioni essenziali, certo alienanti e ripetitive, ma praticabili più o meno da chiunque indipendentemente dalle competenze o, al limite, dalle intelligenze.
La risposta sta nel fatto che in passato si tendeva a paragonare l'azienda, e in fondo ogni organizzazione, a una macchina le cui parti dovevano operare assieme senza interferenze, per giungere a un risultato produttivo ottimale. In questo quadro è ovvio che le emozioni, o le personalità dei singoli, venivano viste come fattori fuorvianti, capaci di minacciare il raggiungimento dell'obiettivo, e dunque quanto più possibile da minimizzare o evitare tout court.
Ma non è più questa, per fortuna, la visione oggi prevalente del e nel mondo del lavoro. Dalle concezioni tayloristiche nella produzione e nell'organizzazione ci si è allontanati da tempo e oggi si può dire che la centralità della persona, delle sue caratteristiche e dunque anche dei suoi aspetti emozionali sono divenuti elementi cruciali per il successo delle organizzazioni. Questo vale nella relazione tra azienda e mercato, come si è discusso nel numero scorso, ma anche nei rapporti interni alle organizzazioni stesse. Negli articoli di questo Speciale gli autori argomentano che gli aspetti emozionali giocano un ruolo sostanziale anche nelle negoziazioni di ogni tipo e che vanno dunque compresi e, soprattutto, ben gestiti.
Non sono fattori nuovi quelli di cui stiamo parlando, ma è nuovo il quadro in cui li si inserisce, le modalità con cui si propone di tenerne conto. L'opera di Daniel Goleman sull'intelligenza emotiva ha svolto il suo ruolo per molti anni ed è stata già ben metabolizzata, ma vale la pena di ribadire che in ogni organizzazione sono le persone a fare la differenza, specie in un'epoca come la nostra in cui l'accelerazione tecnologica è divenuta esponenziale e rischia di offuscare e stravolgere i rapporti fra le persone dentro e fuori il mondo del lavoro.
Come mette bene in evidenza uno degli autori degli articoli dello Speciale, tenere conto degli elementi irrazionali ed emotivi è un comportamento altamente razionale. E questo vale sia che la relazione si stabilisca fra un compratore e un venditore di un oggetto di largo consumo, sia che si tratti di un'operazione multimiliardaria fra imprese di grandi dimensioni. In ogni caso gli aspetti emotivi, e dunque le persone, svolgono un ruolo che deve rimanere con molta chiarezza al centro dell'attenzione.