Benché affermino di accettarlo come parte integrante del processo di innovazione, molte aziende praticano verso il fallimento una politica di tolleranza zero che le blocca nel perseguire nuove idee. La pianificazione strategica degli stanziamenti, l’allocazione delle risorse e il controllo dei rischi sono tutte attività mirate a promuovere prevedibilità ed efficienza; e anche quando capiscono che possono e anzi debbono fallire le persone fanno tutto il possibile per evitare passi falsi. Ma c’è un modo per risolvere questo dilemma: aumentare il ritorno che si trae dai progetti non riusciti estraendo rigorosamente valore da essi, potenziandone le ricadute positive e minimizzandone quelle negative.
In questo articolo due docenti di una business school evidenziano tre mosse in grado di migliorare il ritorno sul fallimento di un’azienda. Primo, studiare i progetti che non hanno avuto successo e documentare tutte le informazioni che offrono su clienti, mercati, tendenze future, sull’organizzazione, le sue operazioni, su voi stessi e il vostro team. Secondo, ampliare l’impatto delle lezioni che se ne possono trarre diffondendole in tutta l’azienda. I massimi dirigenti dovrebbero riunirsi spesso per discutere degli insuccessi. Gli sforzi di condividerne gli insegnamenti con tutti i dipendenti rafforzeranno la fiducia e il rispetto ed incoraggeranno le iniziative future. Terzo, fare un passo indietro e valutare la struttura di fondo dei fallimenti a livello dell’intera azienda in modo da verificare che il vostro approccio complessivo stia apportando tutti i benefici che ne attendete. Se i tassi di insuccesso sono troppo alti potrebbe essere necessario un giro di vite sui sistemi; ma tassi particolarmente bassi potrebbero evidenziare l’opportunità di incoraggiare una maggiore apertura al rischio.
Gli errori sono conseguenze inevitabili quando si tenta qualcosa di nuovo. Ma possono anche essere un’incredibile fonte di valore mettendo in luce quanto la mentalità aziendale sia adeguata o meno.
