Un'organizzazione che dia rilievo alle diversità, che le incoraggi, le introduca e le coltivi per trarne il maggior beneficio possibile è un'organizzazione che crea più valore. Ma è anche un posto migliore dove lavorare in una società più giusta dove è più bello vivere.
Pochi avrebbero l'ardire di sostenere il contrario, così come non si parla male della mamma o della Croce Rossa. Certo di maschilisti, xenofobi e omofobi è pieno il mondo e l'Italia non fa eccezione. Ma è ben difficile imbattersi nei luoghi di lavoro in persone che si oppongano apertamente e volgarmente a un aumento del grado di diversità in azienda, partendo da una maggiore e più qualificata presenza femminile per procedere nella direzione di diversità di altro tipo, quindi di origine geografica, di matrice etnica e religiosa, e di orientamento sessuale.
E le organizzazioni, nel privato e nel pubblico, stanno facendo veramente molto per diventare luoghi dove le pari opportunità si possano realizzare. Le quote rosa, per esempio, possono piacere o meno, ma stanno agendo efficacemente nel forzare l'immissione femminile nel top delle aziende, a partire dai board.
Tutto bene dunque? È solo questione di tempo e, sia pure con velocità diverse, ci si avvia verso organizzazioni sempre più diversificate, convinte - se non felici - di creare maggiore valore grazie a una giusta politica di diversity?
Neanche per sogno, dicono gli autori dello Speciale dedicato a questa importantissima questione. Certo, dicono Dobbin e Kalev nel loro articolo (centrato sulla realtà americana, ma sicuramente applicabile anche da noi) le aziende praticano da parecchio tempo politiche tese a sviluppare la diversity, ma i risultati sono pressoché fallimentari, sia che si tratti di donne sia di persone di colore. E questo si verifica non perché i programmi non siano in sé correttamente impostati, ma per altri, e in parte sorprendenti, motivi. In primo luogo perché, secondo molte ricerche, i dipendenti si ribellano quando percepiscono i programmi di sensibilizzazione come un'imposizione. "Cerca di obbligarmi da fare questo e io farò il contrario per dimostrare che sono una persona libera".
Questa sembrerebbe essere una realtà di fatto, come confermano anche Bohnet e Burrell negli altri articoli sul tema. Gli approcci tradizionali, che sono poi quelli normalmente usati, "peggiorano la situazione anziché migliorarla". Ovvero, la formazione intesa a ridurre il pregiudizio sul lavoro, i test di selezione e le valutazioni delle performance con l'obiettivo di limitare forme di discriminazione nel reclutamento e nelle promozioni, i sistemi di gestione delle lamentele per contrastare eventuali iniquità da parte dei capi non funzionano. Addirittura, dicono, questa "alimentazione forzata" fa il contrario di ciò che si propone.
Molti saranno sorpresi da queste affermazioni che, però, non sono arbitrarie ma si basano su verifiche sul campo e dunque vanno prese sul serio. Significa che per sfondare i soffitti di cristallo e spezzare i vari tipi di catene che imbrigliano la diversity occorre agire in modo differente. La questione, poi, diventa ancora più complessa se si tiene conto del fatto che spesso chi agisce in modo scorretto non è per nulla consapevole di farlo. Ognuno di noi si muove infatti nella vita e nel lavoro portandosi dietro dei bias cognitivi che entrano in funzione senza che ce ne accorgiamo.
Un esempio addotto è quello dei test attitudinali nelle selezioni. A meno che non siano "ciechi", ciò che succede è che riflettono pregiudizi diffusi, non particolarmente voluti né particolarmente crudeli. Ma lo stesso test applicato a un uomo o una donna, oppure a una persona bianca e una di colore, darà quasi sempre risultati diversi e sfavorevoli alla donna e alla persona di colore.
Che fare allora per cambiare le cose, per riuscire veramente a sviluppare un'organizzazione libera da pregiudizi e che realmente incoraggi e aumenti le diversità? Se l'approccio tradizionale di comando e controllo non funziona vanno utilizzati metodi innovativi. Invece di catechizzare i manager, facendoli sentire colpevoli o in qualche modo carenti, è meglio sforzarsi di implementare tattiche non focalizzate sul controllo. E gli autori sono concordi nell'indicarne tre in particolare: coinvolgere i manager nella soluzione del problema; metterli a contatto con persone appartenenti a gruppi diversi; e promuovere la responsabilizzazione sociale sul cambiamento.
Gli effetti, garantiscono, sono sorprendenti, anche se qualcuno dei lettori potrà cominciare a sentire odore di sociologismo a buon mercato. Gli esempi citati negli articoli sono piuttosto convincenti e, anche se l'America non è l'Italia, vale la pena di analizzarli e probabilmente anche di seguirli.
Buona lettura!