Si potrebbe argomentare che la capacità di cambiare è in sé una forma di imprenditorialità, esercitata all’interno di un’organizzazione già esistente, anziché in una situazione iniziale. In parte è certamente vero, ma in parte la differenza salta all’occhio: il manager che avvia un processo di cambiamento nella propria azienda non rischia in proprio ma nel contesto relativamente protetto dell’organizzazione di cui fa parte; l’imprenditore, per contro, mette in moto da zero risorse ed energie trasformative assumendosi il rischio di un’operazione a prato verde. I punti di contatto sono comunque numerosi e forse dovremmo abituarci a considerare non solo l’imprenditore puro, ma anche il manager innovativo come persona dotata di capacità e coraggio imprenditoriale.Gli articoli in questo numero di Harvard Business Review Italia portano a queste riflessioni, particolarmente rilevanti in un periodo come l’attuale, caratterizzato da cambiamenti intensi e numerosi, sia del contesto sia delle strategie aziendali. Prendiamo l’articolo di Isenberg: è un invito pressante a chi vuole avviare un’iniziativa imprenditoriale a guardare fuori dagli schemi consolidati. In prima battuta si rivolge ai Governi di Paesi che si propongono di creare un “ecosistema imprenditoriale”, ossia ciò che da noi si chiamerebbe un distretto industriale coerente; ma a ben pensarci, i suoi suggerimenti sono validi sia per l’imprenditore che vuole avviare un’attività da zero, sia per manager in aziende che puntano a cambiare le loro strategie e il loro posizionamento in funzione ai profondissimi mutamenti del mercato. Le aree in maggiore movimento, ricorda Isenberg, non stanno più nei Paesi avanzati: il grande dinamismo imprenditoriale sta in Paesi come Tailandia, Singapore, Cile, Israele e persino Ruanda. In questi Paesi il decollo è avvenuto, o sta avvenendo, grazie alle forze dell’imprenditoria locale e grazie a un ruolo correttamente interpretato del sistema pubblico: non uno Stato assistenziale, ma uno Stato organizzatore che realizza le condizioni in base alle quali il mercato si possa realizzare in modo razionale ed efficiente.La sezione speciale di questo numero comprende tre articoli che, in modi diversi, vogliono contribuire a definire le nuove strategie per un mondo in rapida trasformazione. Blenko, Mankins e Rogers sostengono la tesi che al fondo di un cambiamento di successo non stanno le ristrutturazioni organizzative, bensì la capacità di decidere con chiarezza di intenti: un altro modo per definire la capacità di essere imprenditivi in azienda. Vermeulen, Puranam e Gulati affermano la necessità di procedere a cambiamenti periodici – “agitare” l’organizzazione – per tonificare il tessuto aziendale e le persone che vi operano. E Schwartz invita a rimotivare i dipendenti modificando l’approccio di forte e incessante pressione che molti top manager utilizzano, specie in questo periodo di crisi, per raggiungere i massimi risultati.Tra i molti altri articoli di questo numero va segnalato l’ultimo contributo di C. K. Prahalad, il grande esperto di strategia e leadership scomparso lo scorso 16 aprile. L’importanza di Prahalad non può essere sottovalutata: basti ricordare che fu lui, assieme a Gary Hamel, a coniare nel 1990 l’espressione e il concetto di core competence, e che pochi anni fa (nel 2004) pubblicò l’articolo destinato a modificare molte strategie di marketing, centrato sulle opportunità “alla base della piramide”. Nel ricordare la sua opera intelligente e penetrante, vale la pena di menzionare uno dei suoi più acuti insegnamenti: «La leadership ha a che fare con la consapevolezza di sé, con la disponibilità di riconoscere i propri errori e con la capacità di sviluppare modestia, umiltà e umanità».