Walter Joffrain è docente IFAF - Scuola di Finanza
Negli ultimi anni la formazione manageriale su temi bancari e di politica monetaria si è focalizzata sull’analisi delle diverse strategie adottate dalle Banche Centrali per far fronte alla devastante crisi economico-finanziaria iniziata nel 2007. Si sono studiate le politiche espansive di creazione di moneta adottate dalla Federal Reserve, dalla Bank of Japan e dalla Bank of England e si sono analizzate le difficoltà incontrate dall’Euro, che risente del fatto di essere una moneta senza Stato, tanto da essere difeso da una Banca Centrale non ancora in grado di adottare tutti gli strumenti di politica monetaria necessari a sostenere la crescita europea.
È invece molto raro vedere affrontata, da parte sia dei docenti sia degli studenti, una tematica considerata estrema dalla politica monetaria, ma non irrealizzabile, ovvero la modalità con cui un Paese membro dell’erea Euro possa uscire dalla moneta unica.
Il problema si era manifestato con rilevanza a partire dal 2010 quando, dopo aver aggredito la sostenibilità e la tenuta sistemica del mondo finanziario, la crisi aveva attaccato la capacità dei singoli Paesi di far fronte al proprio debito pubblico. Il logoramento del tessuto industriale, l’incremento del deficit e la brusca riduzione del Pil avevano messo in discussione la capacità dei Paesi più indebitati di far fronte alle proprie obbligazioni, generando così tensioni assai forti sullo spread e sulla tenuta della moneta unica, tanto da indurre alcuni Paesi del Nord Europa a ipotizzare l’introduzione di un doppio corso della moneta con la creazione di un Euro forte e di un Euro debole.
Tale tematica si è poi ripresentata in occasione della crisi greca e del successivo fallimento del Paese nel febbraio 2012, quando l'Eurogruppo ha raggiunto un accordo per un taglio del valore nominale dei titoli di Stato greci del 53,5% e per una riduzione del debito di circa 100 miliardi.
In seguito, il tema è scomparso dalla cronaca finanziaria, in attesa che venissero definiti i criteri e i processi con cui gestire tale eventualità. Infatti, l'uscita dall'Euro di un Paese membro può avvenire almeno in due modi: attraverso un negoziato che associ il ritorno alla moneta nazionale per il Paese in uscita e il mantenimento di una moneta unica per gli altri; oppure, in modo traumatico, attraverso una disintegrazione dell’Euro travolto da crisi politiche ed economiche nazionali e da conseguenti speculazioni finanziarie dall'estero.
Il primo scenario di uscita concertata, sebbene preferibile, risulta prettamente teorico perché parte dall'assunto – per niente scontato – di un accordo tra gli Stati dell’area Euro per chi resta nel primo gruppo e per chi viene spinto nel secondo con un “Euro di riserva” o, peggio, con il ritorno alle valute nazionali. Inoltre, questo scenario di uscita concordata postula una neutralità dei mercati che è assolutamente inverosimile.
Solo il secondo scenario, con un’uscita traumatica dall'Euro, appare – paradossalmente – credibile come ipotesi, almeno fino a quando non siano definiti a livello europeo processi in grado di gestire la sospensione anche solo temporanea di un Paese dall’Unione Monetaria. Un'ipotesi tuttavia che avrebbe dei costi elevatissimi per le economie nazionali e potrebbe – nello scenario peggiore – determinare pesanti ricadute recessive globali. Proponiamoci ora di stimare quanto potrebbe costare tale scelta, soffermandoci in modo particolare sul caso italiano.
In Italia il ritorno alla vecchia lira comporterebbe una svalutazione almeno del 20-30% delle attività reali (immobili, terreni, partecipazioni, macchinari, strumentazioni…) e delle attività finanziarie degli italiani, che detengono il primato a livello europeo per il risparmio personale e le proprietà immobiliari.
Come recentemente indicato dalla Banca d'Italia, la ricchezza delle famiglie italiane, nel complesso intorno agli 8.500 miliardi di euro, è investita in attività reali per l'impressionante cifra di 5.680 miliardi di euro. Ecco che, anche considerando l’ipotesi più restrittiva e ottimistica che prevede una svalutazione del solo 20%, tale patrimonio verrebbe ridotto a 4.544 miliardi di euro con un abbattimento di circa 1.136 miliardi, pari a oltre due milioni di miliardi di vecchie lire: la metà del valore del debito pubblico dell'Italia nel 2014.
Analizziamo ora quanto accadrebbe all’ammontare residuo della ricchezza degli italiani, pari a circa 2820 miliardi di euro, essenzialmente costituito da risparmi e da attività finanziarie.
Senza considerare la liquidità parcheggiata agli sportelli bancari e postali e pari a circa 700 miliardi di euro, che risulterebbero protetti dal Fondo interbancario di tutela dei depositi fino a 100.000 euro a meno di default del sistema bancario come conseguenza degli attacchi speculativi dei mercati contro la lira e contro un debito pubblico non più difeso da sovrastrutture di garanzia europea, le attività finanziare italiane valgono circa 2.120 miliardi di euro. Di questi circa 550 miliardi sono in investimenti azionari italiani e 250 miliardi in fondi comuni di investimento: un ribasso di Piazza Affari, per effetto dell’uscita dall'Euro, del 20% impatterebbe per circa 160 miliardi di euro sul risparmio degli italiani. Analogo impatto è prevedibile sui circa 500 miliardi di euro di titoli di Stato italiani presenti nei portafogli dei nostri concittadini: anche tali titoli sarebbero sottoposti a un'inevitabile terribile svalutazione pilotata, soprattutto, dalle vendite provenienti da investitori stranieri con una perdita di valore stimabile – per difetto – intorno ai 100 miliardi di euro. Infine, rimane da considerare l’impatto sulla ricchezza finanziaria residua degli italiani (circa 820 miliardi di euro) costituita da obbligazioni corporate, azioni estere o partecipazioni che risentirebbero pesantemente della svalutazione della lira potendo arrivare, in taluni casi, al rischio di default, soprattutto per quei titoli emessi da controparti maggiormente esposte verso il rischio di cambio. Quantificando l’impatto – ancora per difetto – di un 20% di perdite su questo tipo di asset class, si otterrebbero rettifiche per circa 164 miliardi di euro.
In ogni caso, da quanto stimato in modo conservativo e senza considerare ipotesi di default del sistema bancario e industriale del Paese, emerge come l'impatto potenziale complessivo correlato all’uscita dell’Italia dall’Euro sia superiore ai 1.500 miliardi di euro.
La rilevanza di tale risultato conferma l’importanza di affrontare in modo sistematico il tema della rottura dell’Euro all’interno di piani di formazione strategico-manageriale, anche al fine di dissipare alcuni equivoci, tra i quali la tesi populista secondo cui – in caso di dissoluzione dell'Euro – le economie nazionali beneficerebbero all'istante di una svalutazione competitiva come avveniva prima della moneta unica. Tale ipotesi è priva di fondamento: se ogni Paese cercasse di svalutare la propria moneta, non se ne avvantaggerebbe nessuno e nemmeno l'industria italiana potrebbe tornare a competere sui mercati globali sfruttando la svalutazione come faceva negli anni Ottanta. Si osserverebbe invece un pericoloso ritorno di interesse e di investimenti da parte di Paesi e multinazionali straniere attratte non tanto dalle prospettive di crescita dell’Italia, ma piuttosto, come in Grecia, dalla svalutazione degli asset che evocherebbero l’immagine di un “Paese in saldo”. Inoltre, con la svalutazione che deriverebbe dal ritorno alla moneta nazionale e come conseguenza della ripresa della sovranità monetaria, l'Italia si ritroverebbe con un debito pubblico enormemente aumentato e con il grave rischio di essere nuovamente sottoposta agli attacchi speculativi dei mercati finanziari con probabile fuga di capitali e disintegrazione del sistema bancario.
L’ingente e, per molti aspetti, insostenibile impatto di un’uscita traumatica dall’Euro, le conseguenze che questo avrebbe a livello sistemico e a livello economico internazionale confermano come il tema della possibile uscita di un Paese Membro dalla moneta unica sia un problema rilevante e per nulla risolto: la sua trattazione all’interno di programmi formativi aiuterebbe a mantenerlo d’attualità e quindi a favorirne la discussione anche da parte del mondo politico e del mondo finanziario.