Paolo Gallo è Chief Human Resources Officer World Economic Forum
Mea culpa. Ammetto pubblicamente tutti i miei peccati. Ammetto di aver fatto carriera facendo le cose sbagliate, ma facendole bene. Proprio bene. Mi spiego. Quando ascoltiamo musica, adoperiamo ancora il grammofono? Quando dobbiamo comunicare urgentemente utilizziamo il piccione viaggiatore? Quando dobbiamo dire una cosa importante mandiamo un telegramma? Usiamo ancora la macchina da scrivere? Abbiamo ancora dei gettoni del telefono in tasca? Immagino stiate pensando che stia per arrivare la solita sbrodolata sulla rivoluzione tecnologica. Niente di tutto questo. Mi riferisco ai nostri modelli mentali, concetti che abbiamo dai tempi della rivoluzione industriale quando pensiamo di “gestire per risorse umane”. Credo sia arrivato il momento di metterli in soffitta come abbiamo fatto con la vecchia macchina da scrivere, la Lettera 22 della Olivetti.
Come “gestore” di risorse umane e di sviluppo organizzativo, mi sono basato su alcuni concetti di base o modelli mentali che quasi nessuno ha mai messo in discussione. Il modello mentale è basato sul principio dogmatico che solo le persone in cima alla scala gerarchica di una qualunque organizzazione decidono. Gli altri obbediscono ed eseguono. I manager hanno quindi una funzione di controllo e i professionisti di Human Resources devono sviluppare sistemi di controllo delle prestazioni (performance management), di incentivi e di punizione (dismissioni, relazioni industriali e sindacali). Siamo diventati raffinatissimi nello sviluppare e nel rendere più complessi sistemi obsoleti. Abbiamo sviluppato sistemi di valutazione sempre più articolati (peers review, 360 degrees, talent management), sistemi di incentivi sempre più complicati (stock options, deferred compensation), di formazione manageriale sempre più strutturati. In altre parole, abbiamo colorato i piccioni viaggiatori di blu, mandato telegrammi più velocemente, modificato i gettoni del telefono facendoli multicolore e costruito nuove macchine da scrivere con tastiere morbide e anche profumate alla menta.
Il dubbio che ho sempre avuto è stato quello di aver costruito la mia carriera su errori madornali: come diceva Paolo Conte, da adulti si sbaglia da professionisti. Il dubbio quindi è diventato consapevolezza quando, dopo 10 anni alla Banca Mondiale, sono arrivato al World Economic Forum a Ginevra e ho scoperto l’esistenza dei Global Shapers, un network composto da circa 400 gruppi di giovani imprenditori sotto i trent’anni, eccezionali nel loro talento, che hanno deciso di dare un contributo nelle comunità in cui vivono (www.globalshapers.org). Il 50% delle persone su questo pianeta ha meno di 27 anni. Hanno una voce? Che cosa fanno i Global Shapers? Decidono un tema del quale occuparsi, ad esempio aiutare persone con Aids a trovare un lavoro dignitoso. Nessuno controlla quello che fanno, non guadagnano alcun compenso per queste attività, circa il 20% del loro tempo. Il World Economic Forum si limita a dare una piattaforma, uno spazio sicuro, e a invitare i migliori 40-50 Global Shapers a Davos, per farli incontrare con Ceo, capi di Stato e ministri per “seminare” le loro idee in altri contesti e ottenere fondi da investire nelle loro iniziative.
Questa esperienza mi ha fatto riflettere. I Global Shapers si stanno moltiplicando in tutto il mondo, fanno veramente la differenza, non hanno nessun tipo di controllo, agiscono gratuitamente. Forse ho sbagliato tutto. Le persone – iniziamo a chiamarle così, invece dell’odioso termine “risorse umane” – non hanno bisogno di controllo ma di un “significato”, lezione che ci ha lasciato Viktor Frankl nel suo libro “Man’s search for meaning”. Non hanno bisogno di chi decide per loro ma possono e devono pensare con la propria testa. Se accettiamo questo principio, etico prima ancora che manageriale, non avremo bisogno di manager controllori ma di pensatori indipendenti. Non solo. Se esiste un significato, deve esistere motivazione e l’aspetto economico diventa meno importante. Ci si tramuta da mercenari in missionari. Il Capo si trasforma in Coach. Un esempio: Ricardo Semler, Ceo brasiliano di Semco Partners, ha festeggiato (parole sue) “10 anni senza assumere una decisione, tranne quelle che prendono le persone che lavorano”, incluso quante vacanze prendere e quale debba essere il proprio stipendio. Non solo: ha proposto di insegnare “saggezza” nelle organizzazioni. Godetevi il suo discorso su TED (www.ted.com/talks/ricardo_semler_radical_wisdom_for_a_company_a_school_a_life). Pensiamo a Ben Zander, direttore dell’Orchestra Filarmonica di Boston e autore dello splendido libro “The art of possibility”: “Quando avevo ormai 45 anni mi accorsi che il direttore d’orchestra non dice una parola, non emette alcun suono”, e ci spiega come la cosa migliore sia di lasciare che le persone trovino il “loro suono”.
Certo il modello autocratico esiste ancora, molte organizzazioni credono tuttora nel vecchio principio del bastone e della carota. Ritengo che in fondo si tratti di fare una scelta basata su una semplice domanda: “Siamo nel business del controllo o in quello della fiducia nelle persone?”.
Dopo aver trascorso 25 anni, tormentato dai dubbi, prevalentemente nel “business del controllo”, ho deciso quindi di passare “nel business della fiducia”. Preferisco fallire nel provare a fare una cosa che sento profondamente giusta piuttosto che riuscire a fare bene una cosa sbagliata. Se fossi un uomo d’affari sarei capace di dimostrarvi con una certa facilità che facendo così si guadagna di più. Essendo solamente un uomo “in search of meaning”, dico solo che è molto più divertente e può dare significato al nostro ruolo di uomini d’azienda. A meno che non si riaccenda il grammofono, ovviamente.