Walter Joffrain è docente inFinance, società di formazione e consulenza
L’Italia ha il più alto numero di piccole e medie imprese (Pmi) tra i Paesi europei, potendo contare su circa 4,3 milioni di aziende che costituiscono il punto di forza del tessuto imprenditoriale del nostro Paese perché impiegano quasi la metà dei lavoratori dipendenti, generano oltre il 40% del Pil del settore privato e rappresentano circa il 67% della produzione industriale del Paese.
La presenza di un tessuto di Pmi attive in tutti i settori economici ha costituito il fulcro dell’economia italiana negli anni ‘70 e ha consentito al Paese di sopravvivere alla violenza della crisi petrolifera e alla successiva fase di stagflazione. La stessa forza si è trasformata in debolezza quando la combinazione delle due più grandi rivoluzioni economiche del XX secolo – la diffusione della tecnologia dell’informazione e il processo di globalizzazione – ha radicalmente trasformato il sistema economico rendendolo più competitivo. L’adeguamento a un’economia globalizzata è stato reso più difficile dalle peculiari caratteristiche delle imprese italiane che tendono a rimanere indefinitamente nel limbo della piccola dimensione a causa di una tradizione consolidata di proprietà e gestione familiare spesso diffidente nei confronti del mercato e della grande impresa.
In Italia, infatti, le piccole imprese preferiscono rimanere piccole per evitare di affrontare gli adempimenti amministrativi che la normativa prevede per un’azienda di medio-grandi dimensioni, per evitare eccessive ingerenze da parte del sindacato e della politica locale, ma soprattutto perché la famiglia di riferimento vuole evitare di perderne il controllo dimostrando così, palesemente, di ricadere in una sottocultura imprenditoriale che vede l’impresa al servizio della famiglia e non la famiglia al servizio dell’impresa.
La governance familistica nelle Pmi è spesso caratterizzata da almeno tre pesanti limiti, quali carenze organizzative, basso livello di managerialità e minore capacità di innovazione. Per quanto concerne le carenze negli aspetti organizzativi, occorre ricordare che la presenza di esponenti della famiglia controllante nella gestione dell’impresa è in Italia quadrupla rispetto alla Germania. La governance familistica, in combinazione con una classe imprenditoriale relativamente anziana, favorisce spesso una struttura organizzativa artigianale, processi produttivi non formalizzati e controlli inefficaci con impatti diretti sulla competitività dell’impresa.
Altro aspetto oggetto di frequenti critiche è il basso livello di managerialità che il modello familismo delle piccole imprese inevitabilmente incorpora. In alcuni casi, chi raccoglie il testimone riesce a trasformare l’azienda adattandola ai cambiamenti del mercato, ma la peculiarità che permea tali aziende è quella di un passaggio generazionale che finisce per perpetuare il modello imprenditoriale del fondatore, senza un adeguato processo di ammodernamento. Nell’impossibilità di risolvere le problematiche per via endogena, la famiglia ricorre spesso a un manager esterno per rilanciare l’impresa e recuperare quote di mercato. L’apertura della gestione aziendale a manager esterni non è sempre garanzia di successo, ma è pur vero che un approccio fondato sulle competenze anziché sull’appartenenza a un gruppo familiare autoreferenziale rappresenta – se condotto con trasparenza – un criterio migliore di selezione. Altro elemento di grande utilità è intervenire con piani di formazione che forniscano al management gli strumenti per ammodernare i processi produttivi, innovare l’azienda adattandola alle nuove esigenze dei clienti e definire una nuova strategia che ne rilanci la competitività sul mercato.
In ultimo, la ridotta dimensione delle imprese si associa spesso a una minore capacità di innovazione, che è il principale requisito di successo per un’impresa moderna. Le piccole imprese italiane si caratterizzano peraltro per una focalizzazione spesso sbilanciata su settori tradizionali a basso contenuto tecnologico e a ridotto potenziale di crescita, a causa sia dei modesti investimenti in innovazione e formazione, sia –ancora una volta – del perpetuarsi del modello imprenditoriale del fondatore senza un adeguato processo di aggiornamento.
Le carenze organizzative, i ridotti investimenti in formazione e la minore capacità di innovazione si sono esacerbati durante la recessione degli anni 2008-2014 determinando una grave perdita di produttività e di competitività che si è tradotta in un tasso di crescita netta delle Pmi – definito come differenza tra numero di aziende create e quello di aziende chiuse in rapporto al numero di aziende attive – pesantemente negativo per l’Italia. Tra il 2008 e il 2014 nel nostro Paese il numero di imprese chiuse ha superato dell’8,5% quello delle nuove imprese create; su base annua, il tasso di mortalità delle aziende in Italia ha superato di oltre l’1% quello di natalità, evidenziando così un indice di fallimento più alto rispetto a Francia, Portogallo, Spagna e Gran Bretagna.